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Le storie di vita del film "Il Mondo Addosso"


Le storie di vita del film
Una scena del film "Il Mondo Addosso"
Il ragazzo afgano che non ha nome
Quando avevo sei anni un giorno sono andato a scuola e quando sono tornato ho visto che avevano lanciato una bomba sulla mia casa. La mia mamma e i miei fratelli erano sotto le macerie. Appena sono arrivato davanti alla porta non ho trovato i miei fratelli. Ho trovato solo la mia mamma. L’ho presa in braccio. Le ho sollevato la testa e le sue ultime parole sono state: "Se tu sei mio figlio, se tu hai bevuto il mio latte, allora ti dico che devi andare. Parti e vai a raccontare in tutto il mondo che ci sono persone che vivono come noi. E i problemi che abbiamo”.
È il testimone “invisibile” che parla per tutti. Ripercorre il viaggio che ha intrapreso da solo quando aveva undici anni: l’Iran, la Turchia, la Grecia fino all’Italia. Racconta del lavoro nelle fabbriche turche, di come ha visto annegare i suoi coetanei, di essere sfuggito a soprusi e detenzioni. È la testimonianza di coloro che non vediamo, il racconto a cui Mohammad Jan dà voce ogni notte presso le stazioni e le strade.
Adesso che sta in Italia ha cominciato il percorso di regolarizzazione. Dice che non gli importa più; la cosa che voleva fare era di portare la sua testimonianza raccontando al mondo le parole di sua madre.

Mohammad Jan
Quando incontro per le strade i ragazzi afghani, io chiedo come sono arrivati qui, da quale parte dell’Afghanistan provengono, se vengono proprio dalla mia zona. Non posso dire che sono Mohammad Jan, figlio di questo e cerco la mia famiglia. Perché quando noi scappiamo e veniamo qua, ognuno ha una paura dentro. Ma forse prima o poi conoscerò qualcuno che mi darà la possibilità di trovare la mia famiglia. Cerco sempre qualcuno a cui chiedere dove sta la mia famiglia…”.
Con la paura che non si cancella e una grande forza di volontà Mohammad Jan, giovanissimo afgano che vive in un centro di accoglienza alle porte di Roma, appena maggiorenne è diventato educatore di strada. La notte va per le strade della capitale a conoscere i ragazzi afgani che vivono presso le stazioni per spiegare loro quali sono le forme di accoglienza a cui possono accedere. Ma non è semplice per Mohammad Jan, arrivato anche lui completamente solo attraverso il Pakistan, l’Iran, la Turchia e la Grecia, spiegare che per il governo italiano l’Afganistan non è più un paese pericoloso e sempre più di rado viene concesso l’asilo politico, e non è facile nemmeno convincere i suoi stessi connazionali a raccontare tutte le violazioni dei diritti umani che hanno subito nella loro vicenda migratoria. Eppure lui lo fa, con il ricordo tremendamente vivo della separazione più grande, del più grande dei tormenti, con il quale prima o poi dovrà fare i conti vivendo nel nostro paese, crescendo e diventando uomo. Il lavoro di Mohammad Jan si completa nei pomeriggi che seguono gli incontri notturni con i ragazzi invisibili. Lui li attende in un centro di accoglienza diurno dove li invita a recarsi e diventa per loro il mediatore nei colloqui con gli avvocati e gli psicologi.
Tutti i ragazzi che Mohammad Jan incontra sono scappati durante il periodo dei Talebani o dalle guerre civili del periodo post-liberazione, e sono giunti in Italia dopo un viaggio durato anni, non dissimile da quello che lui stesso ha compiuto: prima il Pakistan, poi l’Iran, poi la Turchia, poi la Grecia e finalmente l’Italia, a volte dopo essere tornati nei paesi di transito più di una volta perché respinti in Grecia. In questi paesi hanno perso parenti e compagni: uccisi dai militari o affogati in mare, caduti da un camion oppure semplicemente spariti nel nulla. Hanno vissuto clandestinamente lavorando duro nelle fabbriche per guadagnare i soldi necessari per pagare i trafficanti e arrivare in Italia, che spesso non è neppure la meta finale.
Mohammad Jan è uno degli ultimi minori afgani ad avere ottenuto l’asilo politico.
Da qualche tempo, adesso, tutti i giovani richiedenti asilo provenienti dall’Afghanistan ottengono, se non il diniego, il permesso di soggiorno per motivi umanitari, che può essere rinnovato, al compimento del diciottesimo anno, soltanto lavorando. Così, questi piccoli viaggiatori in fuga dalla guerra, venuti qui per vivere dopo aver perso tutto nel loro paese, sono trattati come i piccoli migranti economici e il loro permesso di soggiorno sarà legato al lavoro o allo studio. Sotto il suo atteggiamento di grande responsabilità e il suo comportamento da uomo, Mohammad Jan nasconde la sua grande fragilità; non dimentica la propria sofferenza, lui che durante la fuga dal suo paese ha perso di vista lo zio e il fratello, spariti sotto i proiettili dei militari al confine turco. La madre, l’unica della famiglia rimasta in Afghanistan, avrebbe dovuto tornare a prenderla una volta sistemato - questa era la promessa - ma così non è stato e dei suoi familiari Mohammad Jan non ha più notizie da cinque anni.
Forse anche per questo motivo Mohammad Jan fa l’educatore alla pari, per conoscere sempre nuovi ragazzi afgani: “forse un giorno, tra loro, incontrerò qualcuno che conosce la mia famiglia, qualcuno a cui chiedere notizie di mia madre”.

Cosmin
Penso che se fossi nella mia casa in Romania anche io starei bene. Sto bene anche qua, ma non come vorrei io. Perché proprio adesso sono solo e oggi compio 18 anni.” Cosmin è uno dei tanti ragazzi che da soli intraprendono viaggi dall’est Europa diretti nell’Europa occidentale per far fronte ad un mandato familiare: “raccogliamo i soldi per farti partire così trovi da lavorare e puoi aiutare la tua famiglia”.
Vive in un istituto di seconda accoglienza e adesso che è diventato maggiorenne rischia di tornare in Romania e di veder fallito il proprio progetto migratorio.
La storia di Cosmin inizia il giorno del suo diciottesimo compleanno. L’istituto che lo ospita ha un obiettivo: raccogliere una documentazione completa che attesti, oltre lo stato di bisogno della sua famiglia, che il ragazzo vive nella legalità e sta cercando un lavoro. In questo modo, il Commissariato tenuto a pronunciarsi sulla conversione o il diniego del suo permesso di soggiorno, potrà tener conto di questi elementi e decidere di farlo restare in Italia in deroga ai requisiti previsti dalla legge per i minori migranti al raggiungimento della maggiore età. Cosmin viene aiutato a cercare lavoro tra uno di quei mestieri affidati alla manodopera immigrata. Intanto frequenta la scuola serale dove impara a migliorare il suo italiano. Finalmente arriva il giorno del grande colloquio: Cosmin viene convocato dal proprietario di una ditta edile. Lui ha già fatto il muratore in Romania e quello è proprio il lavoro che ha sempre voluto fare. La promessa di assunzione si aggiungerà alla documentazione già prodotta al Commissariato sperando che il desiderato contratto di apprendistato arrivi prima della pronuncia della Questura.
È ancora notte quando Cosmin prende un treno e va a alla ASL di Frosinone dove la ditta ha sede. Qui viene più volte visitato finché il medico che lo sottopone alla visita audiometrica si accorge che ha un serio problema ad un orecchio, che potrebbe costituire un grosso limite e non fargli ottenere l’idoneità al lavoro.
Cosmin non ha mai fatto menzione di un problema cronico che ha curato in Romania con un intervento, ma per fortuna dopo una cura adeguata riesce ad ottenere l’idoneità al lavoro. Il mandato familiare ha dato i suoi frutti. Se nel frattempo la Questura non gli negherà di restare.

Inga
Però, non credevo che mi trovo un lavoro così presto, così subito, no? Ho chiamato, mi dice ‘Guarda, vieni domani, prova e dopo vediamo’. E da lunedì ho iniziato. E così tutta la settimana, alle 5 mi sveglio e alle 7 devo iniziare. Finisco lì alle due e vado direttamente a scuola. Arrivo a casa alle nove, alle dieci. La mattina di nuovo alle cinque. E così tutti i giorni. Però è bello lavorare…
Stava per compiere diciassette anni quando in Moldavia ha detto a sua madre che voleva andare in Italia a lavorare. La madre le ha risposto che non si sarebbe opposta se il padre fosse stato d’accordo, tanto più che i soldi mancavano e che presto sarebbero stati loro a chiederle di emigrare per trovare un lavoro e aiutare la famiglia.
Raccolti l’equivalente di duemilacinquecento euro, un investimento che ha indebitato la famiglia, Inga ha raggiunto l’Italia su un pullman insieme ad altre nove ragazzine minorenni. Inga si ritrova così a Roma, sola, viene accolta in un istituto e subito iscritta ad un corso di formazione professionale.
La storia di Inga inizia qui. Inga ha diciassette anni e le idee molto chiare: vuole diventare una grande pasticcera ed è per questo che frequenta un corso di formazione professionale. Anche in Moldavia preparava i dolci, imparava da sua madre ed è stata proprio la madre a trasmetterle questa passione. In vista dell’imminente diploma alla scuola professionale, Inga decide che è tempo anche per la licenza media. Va a scuola ad informarsi, fa un colloquio iniziale con un’insegnante e un test d’ingresso; preferisce gli orari serali, perché spera di trovare un lavoro come pasticcera, una volta ottenuto il diploma. Con il diploma di aiuto pasticcera trova un datore di lavoro disposto a prenderla in prova. È tanta l’urgenza di lavorare che Inga comincia a lavorare in nero presso il laboratorio senza comunicarlo all’istituto. Ciò che per Inga è un grande successo, per l’istituto è una preoccupazione: adesso bisogna capire se questo datore di lavoro è disposto ad assumerla regolarmente, tanto più che tra meno di una settimana Inga compierà diciotto anni.

Josif
Mi fa male il cuore quando dico che ho questo, che ho quello… e di nuovo sto per strada come un matto. Ho chiamato casa un’altra volta. Era contenta mia madre che ho chiamato. Mi chiede se sto bene perché le manco. Di nuovo le ho detto bugie che sto bene, ho un lavoro, una casa, sto in salute. E invece sto per strada…
Josif è rumeno e vive tra i treni abbandonati e piazza della Repubblica, dove si guadagna da vivere prostituendosi insieme ad un gruppo di giovanissimi connazionali.
Lui e i suoi compagni hanno sostituito i giovani ragazzi di vita italiani che abitavano nelle borgate romane.
Quando era ancora minorenne era stato accolto in un centro di accoglienza dal quale è fuggito poco dopo il suo inserimento: “non volevo stare solo, i miei amici erano tutti per strada, e stavano bene”. Così ha scelto il gruppo ed è fuggito.
Ammette che vorrebbe essere aiutato a cambiare vita, ma ormai è clandestino e sembra essere entrato in una spirale dalla quale è difficile uscire. Come fa a regolarizzarsi, lui che è maggiorenne e vive fuori dalla legalità? Nessuno in Romania sa del suo insuccesso, manda regolarmente i soldi alla madre raccontandole solo bugie: una casa, un lavoro, una fidanzata. Invece sta tutto il giorno in giro per la città, si lava alla stazione, la sera va a mangiare in una rosticceria, e, finito di lavorare a notte fonda, va a dormire in un treno abbandonato insieme ai suoi compagni di strada. Qui
si sveglia tenendo stretto il suo migliore amico, un pupazzetto di peluche giallo che gli sorride sempre.

27/02/2007