Festival del Cinema Città di Spello e dei Borghi Umbri
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Note di regia del film "L’Amour Caché"


Note di regia del film
Il regista Alessandro Capone
Raramente mi è capitato di imbattermi in un documento letterario che presentasse una forza ed un impatto così decisi e devastanti come nel caso del “diario” di Danielle Girard.
Due cose a mio parere distinguono la storia di Danielle dalla quantità di storie atroci che affollano giornali e notiziari tv e suscitano in noi uno sterile senso di orrore e vergogna:
- il fatto di centrare uno dei maggiori tabù della nostra società, e cioè l'amore d'una madre per il proprio figlio, o figlia, avvicinandoci non tanto la specifica, sfortunata, realistica storia di Danielle, quanto uno stato d'animo senza 'diritto di cittadinanza', ma che più o meno alla lontana ci coinvolge tutti, ed è senza tempo, antico come lo sono l'uomo e la donna;
- un riscatto finale che, per quanto tragico e doloroso, permette a questa vicenda di astrarsi dal quotidiano, e in ultimo dà un senso alle sofferenze della protagonista e a quelle di sua figlia.
Il primo punto riguarda un sentimento addirittura innominabile per qualunque donna, pena la discriminazione più assoluta da parte di tutti, e l'inesorabile flagello dei sensi di colpa da parte di sé stessa. Una madre non può scegliere di amare o no sua figlia, non può nemmeno essere assalita dal dubbio; la deve amare e basta, perché così vuole la logica delle cose. Che probabilmente poi tale è, perché dell'amore e delle cure d'una madre qualunque mammifero ha bisogno per diventare adulto, e poter procreare a sua volta.
A pensarci bene il fatto in questione è però un altro, e cioè non l'amore in sé, quanto la libertà di discuterlo e sceglierlo, di provarlo e manifestarlo, e più in generale la coscienza e il senso della maternità in sé stessa. Una serie di circostanze - non importa quali - hanno impedito ed impediscono a Danielle di provare e manifestare pienamente il suo amore per la figlia, lasciando per reazione che affiorino in lei sentimenti di ostilità e diffidenza.
Forse non è così scandaloso, inaccettabile ed insolito come a prima vista potrebbe sembrare; quello che distingue Danielle da tutte le altre madri è che lei ha trovato il coraggio, o la disperazione, per ammetterlo. Il secondo punto riguarda invece l'inaspettato scambio di ruoli e di destini tra Danielle e Sophie, il cui sacrificio finale ristabilisce tra madre e nipote, anche se a carissimo prezzo, quella continuità che s'era spezzata tra madre e figlia, dando a tutte loro la possibilità d'un futuro.
In ragione di queste considerazioni, una vicenda particolare e personalissima come quella di Danielle può assumere un senso universale, e riguardarci tutti, anche coloro che nella maternità possono, o vogliono, leggere solo e soltanto il rovescio nobile della medaglia.
Ci è sembrato importante - nella sceneggiatura, scritta con Luca D’Alisera - restare fedeli a quello che si presentava come un impianto drammaturgico straordinario, e di non staccarci dalla struttura rappresentata dallo scorrere dei fatti e dalle riflessioni della Girard, mantenendo inalterata la consecutio della narrazione, alternata ai ricordi, tenendo tutto al presente. Per quanto riguarda più specificamente la trasposizione cinematografica, nell’idea di mantenere sullo schermo la stessa limpida forza d’impatto che il racconto già possiede sulla pagina, due sono i principali nodi da sciogliere:
- La visualizzazione dello spazio fisico nel quale si muove Danielle, e dal quale prende spunto il suo racconto, e cioè la clinica;
- Il dosaggio del Voice-Over
A mio avviso non bisogna aver paura dell’aspetto claustrofobico dell’ambientazione, poiché in definitiva è proprio da questo spazio astratto e separato dal mondo che la confessione di Danielle trae la forza per staccarsi dalla confusa disperazione di tutti i giorni, e per trasformarsi in un grido tragico, unico e irripetibile.
Abbiamo parlato di spazio fisico, ma trattasi piuttosto di uno spazio mentale e ipnotico. Danielle si è persa nella sua propria stessa vita, è ricaduta completamente su se stessa, in quel vicolo cieco senza futuro e senza speranza che è il suo inconscio. Sebbene in maniera non dichiarata, la clinica è stata pensata e verrà raccontata proprio come il suo universo inconscio.
Nessun simbolo, per carità, nessun tentativo di razionalizzare e descrivere un tal genere di spazio con codici ed esoterismi da addetti ai lavori. Semplicemente un luogo magari moderno e asettico quasi completamente deserto, nei cui spazi sterili Danielle si muove e vagabonda come un’eroina prigioniera e dannata, reincontrando disordinatamente pezzi del suo passato, alla porta del quale - unico esile collegamento con il mondo reale – sta la psichiatra.
Riguardo al Voice-Over ce ne sarà quel tanto che serve, non inteso a “spiegare”, ma ad “affermare” provocatoriamente il personaggio di Danielle.

Alessandro Capone