Festival del Cinema Città di Spello e dei Borghi Umbri
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Note di regia del film "Il Sole di Nina"


Note di regia del film
Camminavo per le strade di Mantova alla ricerca di uno spunto forte per realizzare un film che avesse anche a che fare con la città. L’acqua è un elemento importante, forse la vera protagonista: i laghi che circondano, proteggono ma al tempo stesso non lasciano possibilità alla città di modificarsi.
Ogni volta che scendevo dal treno e arrivavo a Mantova, andavo subito in giro a prendere appunti. Cercavo una storia e volevo che fosse proprio la città a suggerirmela. Sulla mia moleskine avevo scritto l'appunto: Clown, Clown come angelo, personaggio nemico dei confini dell'animo umano. Un angelo con la maschera da clown che rappresenta quanto di “incomprensibile” nasconde la nostra normalità “apparente”.
Il clown è un adulto che torna bambino per ricucire le ferite della propria infanzia, tutte quelle cose che sono rimaste a metà. L'angelo-clown di questo film usa la maschera non solo per sanare i suoi dolori, ma anche e soprattutto curare quelli dei personaggi che incontra.
Cercavo la mia storia a Mantova, ma l'idea di un clown come protagonista aveva preso forma nella città dove risiedo da circa undici anni, Udine, in un pomeriggio dell’aprile 2006. In un appartamento all'ultimo piano di un palazzo del centro storico vive veramente un “angelo”; è ancora lì. Non dirò mai chi è; in fondo non è mai necessario raccontare tutto.
Ho cominciato a preparare il film solo con questa idea.
Nella ricerca degli esterni, Mantova si è confermata subito la location ideale, così ricca di posti bellissimi, colorati e al tempo stesso neutri, senza colore, freddi. Mi era d’altronde subito piaciuto questo estremo così visibile: molte scene sono nate da lì, sono state scritte per alcuni luoghi che hanno catturato la mia attenzione e curiosità.
Il lago - l'acqua - è un elemento ricorrente nel film perché, come la vita, incontra e riflette molte cose diverse. I colori utilizzati ne Il Sole di Nina e l'atmosfera malinconica che ho voluto ricreare, grazie anche alla grande sensibilità del direttore della fotografia – e amico - Daniele Trani, traducono lo stato mentale della protagonista.
Il soggetto trae ispirazione dalla realtà, da qualcosa che mi è successo realmente; ma poi, per raccontare questa storia, pur partendo dalla vita vera, sono scivolato nei ricordi e nella “fantasia-finzione” più emotiva. Credo che quando si ha in mente di scrivere una sceneggiatura, sia necessario staccarsi da tutto, diventare un altro, entrare dentro tutti i personaggi che si vogliono raccontare. Io stesso mi sono dunque trovato ad essere ognuno di loro, mi sono avvicinato alle loro emozioni, alle loro debolezze e alla loro forza; in ciascuno di loro c'è una parte di me.
Capirete che uno, poi, di notte non dorme proprio benissimo con tutti questi personaggi “dentro”.
La prima fase della sceneggiatura de Il Sole di Nina è stata quella più spontanea, quella senza rumori, semplicemente libera: mi sono lasciato soprattutto attraversare dalle emozioni più forti che la città di Mantova mi ha suscitato. Poi, più razionalmente, ho cominciato a chiedermi cosa volevo raccontare, per me stesso e per gli altri.
Insieme all'attrice Silvia Benedini ho costruito il personaggio del clown-angelo: è stata lei stessa a suggerire il nome Nina, volendo mantenere lo stesso che aveva utilizzato durante un laboratorio tenuto da Tapani Mononen (l’attore che nel film interpreta Herman Sternis). Insieme, siamo riusciti a riempire un cerchio di dubbi e di emozioni.
Silvia è una quelle attrici piene di passione, si mette sempre in gioco, nel suo cuore c'è sempre una domanda: Perché?
Non nascondo che i suoi “perché” a volte mi hanno messo in crisi e anche infastidito: non sempre ero capace di dare subito una risposta ai dubbi e alle richieste di chiarimento provenienti da una personalità come la sua. Ho imparato che davanti alla domanda “perché”, qualsiasi sia la risposta, anche il silenzio è gratitudine.
Nessuno dei miei lavori lo considero davvero concluso. Dentro di me, ogni mio progetto, ogni mia storia, ogni mia musica, nasce da un punto preciso per giungere ad un altro altrettanto definito, ma ciò che chiude il cerchio, la risposta personale che risolve e chiarisce l’idea che sta alla base delle mie opere, la lascio sospesa, tendo a nasconderla agli spettatori. Un film non dice cosa è giusto o sbagliato: racconta solo situazioni che accadono o che vorremmo accadessero, che fanno parte della vita di ogni persona. A chi lo vede spetta il compito (e il piacere, mi auguro) di chiudere il percorso del senso, riempiendo uno spazio che a lui solo appartiene, luogo in cui io non voglio rientrare.
Nel film ho d’altronde messo molto di ciò che mi appartiene; in particolare, la musica.
Questo mio lavoro, come tutti gli altri, è stato fortemente influenzato da questa mia passione: il pianoforte è la mia prima professione. La musica che nasce ed esce da uno strumento è sempre qualcosa di vero, reale, genuino; non ha bisogno di finzione. Per questo è parte della storia e non poteva che accompagnare tutto il racconto: nasce da esso e lo fa scaturire a sua volta.
Un film non si conclude con la fine delle riprese: l’inizio del montaggio rappresenta una nuova salita fatta di tanti piccoli sassi, il sentiero lì non esiste più. Tra l’autore e il montatore, il sognatore e il razionale, si crea una complicità molto forte, per la quale si cade e si scivola sui sassi insieme, ridendo in due a sorriso stretto, per poi rialzarsi, aiutandosi. Così è stato tra me e Michele Santamaria, il quale ha apportato nuovi punti di vista prima non considerati e importanti soluzioni. Ha inoltre montato tre versioni de Il Sole di Nina, l’ultima delle quali è certamente la più completa, nonostante il senso ultimo rimanga comunque sospeso. Come ho già detto, il suo percorso comprende anche lo spettatore. D’altronde il cinema è un gioco di squadra: si fa ricco di tanti ruoli diversi. Coloro che li recitano in senso stretto sono altre tessere imprescindibili.
Ho scelto Silvia per il personaggio protagonista perché prima de Il Sole di Nina avevo scritto una pièce teatrale, Il valore delle mani, a cui lei aveva partecipato alimentando il lavoro con la sua forte sensibilità artistica e il suo grande talento mimico; avevo bisogno di una ragazza molto dolce e che sapesse gestire la maschera del Clown e il corpo senza aver paura. Gran parte del fascino di Silvia sta nella capacità unica di recitare proprio con tutto il corpo, grazie ad un eccezionale carisma fisionomico. Basta guardare le belle foto di scena e di backstage scattate da Elia Falaschi per rendersene conto.
A metà delle riprese ricordo di essermi chiesto quanto di Nina ci fosse in Silvia e viceversa.
Silvia ha lavorato tantissimo, non si è mai fermata: senza orari, senza paure, anche nelle scene più pericolose, sui tetti delle case, sugli alberi, e non solo. Non è mai soddisfatta della sua interpretazione: è un’attrice che da tutto, e chiede anche tutto. Quando un attore entra troppo nel personaggio e vi si perde dentro, non si rende più conto dell'emozione che ha regalato a chi sta dietro la telecamera e allora non c’è verso di fargli capire che lui stesso è diventato quell’emozione, anche se sembra non riconoscerselo.
Il suo personaggio, Nina, non è affatto facile: usa poco le parole, e lo fa solo quando la storia inizia a prendere forma, a trovare la curva narrativa; così il suo silenzio diventa un mezzo di comunicazione fondamentale con le persone che la vedono o la sentono, ma anche con quelle che non la vedono affatto.
Forse Nina è l’anima ferita di un tempo passato: ha sofferto e non racconterà mai il perché. Solo porta con sé un interrogativo: Che cos'è l'amore? La ricerca della risposta le dà una direzione e coinvolge tutti i personaggi che lei, angelo col naso rosso, accompagna e protegge.
Il Sole di Nina è la trama di una poesia con personaggi che si incontrano e non si incontrano, personaggi che più che per essere guardati sono tratteggiati per essere ascoltati, percepiti per quello che evocano.
Il barbone è quanto di incomprensibile (e inaccettabile?) nasconde la nostra normalità. Appartiene alla realtà, e se la società ha molte facce come tutte le cose finte, anche il barbone cambia il suo nome, scegliendosi Pedro. Per questo ruolo ho scelto Werner Di Donato, che proviene dalla vecchia scuola del cinema, quella fatta di carne e sangue, quella vera, che forse purtroppo oggi non c'è più. Anche con lui avevo già lavorato: era stato il protagonista di un mio mediometraggio dal titolo Bastasse il Mare. Per Pedro Nina rappresenta un enigma: può essere la vita, la morte, o niente, non si sa. La follia di Pedro è il silenzio di Nina. Lei lo segue o è lui che pensa di essere seguito da lei: è come se Nina fosse dentro di Lui e viceversa. Non si incontreranno mai forse proprio per questo, nonostante riescano a sentirsi e i loro occhi a guardarsi. Lei sarà presente anche mentre lui morirà, in una notte d'inverno, tra le braccia del violinista ebreo. Nelle follie di Pedro c’è anche spazio per le sue pesanti sentenze sull’indifferenza della società - che toccano, in alcuni casi, anche momenti comici. La disillusione e l’ironia sono la sua chiave per sdrammatizzare la realtà di una società dove l’apparenza è l’unica sostanza rimasta.
Tapani Mononen è un attore finlandese con cui ho lavorato ne Il Valore delle Mani e in uno spettacolo scritto da lui dal titolo Quello che resta, per il quale ho composto le musiche; da allora ci lega una forte amicizia. Nel film interpreta Herman Sternis, l’uomo d'affari tornato dopo tanti anni nella sua città d’origine per comprare l'ultima opera del padre pittore e dove deciderà di restare per sempre. Tapani mi offriva quasi interamente quello di cui avevo bisogno per la figura di Herman: ho scritto il personaggio su di lui, mi piace il suo modo di recitare, così fortemente emotivo. Herman è un uomo chiuso e apparentemente freddo, pieno di silenzi, non sa esprimere quello che ha dentro: i sentimenti che custodisce nel profondo emergono solo durante la notte, nei sogni, nei quali fa irruzione Nina che con la sua amara dolcezza lo mette di fronte la verità. Anche Alberto, custode delle proprietà della famiglia di Herman, svolgerà un ruolo simile a quello di Nina; attraverso i suoi racconti farà affiorare nel cuore di Herman un mondo che aveva dimenticato, e lui si ricorderà così chi è veramente. Chi rimane in silenzio può riflettere e far riflettere: i miei personaggi sono feriti dalla vita e a persone come Herman non piace molto parlare: a fatica risponde e comunica con gli altri e se lo fa, è comunque in modo duro e deciso. È un solitario.
La prima volta che ho incontrato Giovanni Franzoni, il violinista ebreo de Il Sole di Nina, è stato una sera di settembre del 2006, all'inaugurazione della mostra del Mantegna a Palazzo Tè: recitava alcune letture e mi ha emozionato molto la sua interpretazione. Ricordo che c'è stata subito una bella intesa. É una persona vera, un gran sognatore, ci siamo capiti in maniera diretta senza sovrastrutture; è una di quelle persone che ti fanno sentire meno solo; come me non ha paura di essere estremo, pur rendendosene conto.
Ho iniziato a raccontargli subito del film e del personaggio che avrei desiderato interpretasse, sentivo che quella figura con la sua presenza avrebbe potuto essere qualcosa di veramente speciale, e così è stato, per entrambi.
É stato Giovanni a farmi vedere la casa galleggiante costruita da suo cugino Andrea e dai suoi amici, (grandi sostenitori del film) e da lì è nata l'idea di fare del lago la dimora del musicista.
Il violinista ebreo è forse il personaggio più enigmatico, intenso, denso quanto il colore della sua casa sull’acqua, così diversa da tutte le altre che si vedono nel film: è la sola libera di muoversi. Nina illuminerà i suoi dubbi finché lui non prenderà la decisione di andarsene, lasciando il lago dietro di sé, e rinunciando alla calma e riconfortante immobilità dello specchio liquido, fatta di tracce di eventi che il tempo ha conservato integri: i ricordi, ammonimenti severi per quello che l'uomo non ha avuto il coraggio d'essere, o di vedere di sé. Immagini ferite, che raccontano di un'innocenza perduta e di una integrità alla fine riconquistata. Qualsiasi città suggerisce all'uomo che la abita di andarsene. É un modo per ritrovare se stessi dal distacco. Poi si torna, ma con un bagaglio meno carico e pesante di quando si è partiti. Magari vuoto, come succederà a lui.
Anche a Bianca, giovane e irrequieta fotografa, delusa da un amore giunto alla fine e dalle amicizie apparenti che la circondano, una decisione radicale come quella della partenza o dell’abbandono offre una risposta: nella cornice che da anni ha preservato vuota per metterci l’immagine più importante della sua vita, potrà finalmente riporre la foto del bambino che porta dentro di sé. Bianca non vede Nina, né può sentirla; eppure Nina resta con lei, sempre, ne condivide inquietudini e ricerche.
Il personaggio di Bianca vive dentro il corpo di Federica Restani. Federica è stata una piacevole sorpresa: è una di quelle interpreti di discreta costanza e di chiaro talento, intensa e delicata al tempo stesso. Ha un vastissimo repertorio di emozioni nella sua valigia di attrice e nei panni di Bianca è come se il suo viso parlasse cento lingue e i suoi occhi raccontassero cento storie: sa sembrare fragile e forte allo stesso tempo, sconvolta e assolutamente bella, illuminata da una luce che le viene da dentro. Bianca è in costante metamorfosi, proprio come Federica che, per come la vedo io, è sempre con la valigia in mano, alla ricerca di sentimenti forti, le sue emozioni sono costantemente in superficie; una donna che non appartiene a questo tempo.
L'attore che interpreta Alberto, il vecchio custode delle proprietà di famiglia di Herman, è un oceano di umiltà - vorrei tanto averne almeno la metà. È Silvano Palmierini, che ho conosciuto una sera del novembre del 2006, proprio quando stavo cercando la persona che avrebbe potuto recitare questo ruolo. Sono stato invitato a visitare la sede del Teatro Campogagliani di Mantova durante le prove dello spettacolo Re Lear, e così l’ho visto. É difficile parlare di Silvano e della sua sottile malinconia: è un attore completo, la sua bellezza e bravura stanno nel fatto che gli viene naturale uscire dalla finzione cinematografica. Ha dato vita ad Alberto con una spontaneità quasi imbarazzante, certamente unica. Interprete sensibile della realtà che lo circondava, ha saputo raccontare, far ricordare, provocare l'anima ferita di Herman, con grande umanità e soprattutto con tanta, tanta verità. E' difficile per me che ho trent’anni descrivere le sensazioni, la sensibilità che un uomo come Silvano ha dentro e che, senza chiedere nulla in cambio, mi ha regalato e mi ha insegnato. Le voglio conservare intensamente, custodirle per ora egoisticamente nel mio cuore; forse un domani le farò salire nella mente.
Un personaggio che dovrebbe avere meno spazio degli altri e invece ha molte cose da dire grazie alla sua forza e debolezza è il ragazzo cieco; il suo interprete è Stefano Mangoni. Un cieco è cieco nelle terra dei vedenti; il suo handicap, la sua difficoltà gli dà però una sensibilità estrema, che lo porterà a percepire più di altri la presenza di Nina. Stefano ha studiato tanto il suo personaggio, si è documentato molto per essere credibile e naturale; il suo impegno mi ha davvero colpito e il risultato è stato molto buono.
Nel film, Nina rappresenta il punto di partenza e insieme il punto di arrivo.
L’evoluzione positiva dei personaggi, della storia del film e della vita. Forse anche della mia.
Non è infatti un caso che io abbia voluto girare due scene importanti nelle due città a cui sono più legato: Roma e Trieste.
La prima perché custodisce i miei anni accademici, intensi e fortemente rivelatori; il ponte che si vede nella scena è quello degli Angeli, dietro Castel Sant’Angelo. Lì, a ridosso del fiume Tevere, delle sue acque torbide ma sempre rinnovate, ho passato ore bellissime a leggere e pensare. È stato importante riportare ne Il Sole di Nina quel luogo e l’energia di cui è permeato.
Trieste è invece la mia città natale e c’è un posto al quale sono particolarmente legato che non potevo non includere nel film: il Faro della Vittoria. È uno dei fari più importanti d’Europa e, per me, il più luminoso; un approdo al quale mi ancoro.
Poi c’è un terzo luogo: il lago, appunto. Il film si apre con l’immagine rossa della casa galleggiante, immersa in quella luce di transizione che caratterizza il film intero. In quella scena iniziale si vedono Nina, che cammina lungo il lago guardando l’orizzonte, e il violinista, che sospeso sul lago chiude la porta della sua casa, sbarrando fuori la luce.
Le ultime immagini del film ci riportano a Nina che si toglie la maschera ancora davanti al lago e al violinista che cammina sereno per Roma senza il suo violino. Il racconto si chiude con l'inquadratura della casa sul lago abbandonata, una panchina vuota, lo specchio d’acqua di nuovo immerso nella luce rossastra.
Il ripetersi dei destini non provoca saggezza, ma crea sempre nuovi dubbi e illusioni.
Al termine di tutto, non posso non rivolgere alcuni ringraziamenti importanti.
Un grazie particolare va ai maggiori promotori de Il Sole di Nina, senza i quali difficilmente sarei riuscito a realizzare il progetto: Lubiam Moda per l'Uomo e la Fondazione Banca Agricola Mantovana. Altri due enti hanno assicurato, mediante il proprio apporto, la buona riuscita del progetto: l’Assessorato Politiche Sociali della Provincia di Mantova, nella persona dell'assessore Fausto Banzi, e il Comune di Mantova tramite l’Assessorato alla Cultura, che ha visto in Giulia Longhini un prezioso aiuto.
All’Azienda udinese Trudi e Sevi devo assolutamente riservare un ringraziamento particolare per aver donato materiali e prodotti utilizzati durante le riprese, atto che ha contribuito ad arricchire e rafforzare il messaggio di solidarietà del progetto, rivolto in particolar modo ai bambini svantaggiati.
Un sentito ringraziamento va inoltre al Presidente del Club UNESCO di Udine, Dott.ssa Renata Capria D'Aronco, Segretario Generale della Federazione Italiana dei Club e Centri UNESCO.
Un caloroso grazie al cast tecnico e artistico e a tutte le comparse.
Un grazie particolare ad alcune persone a me molto care, che mi hanno dimostrato senza alcuna riserva sostegno e appoggio durante la realizzazione e la post-produzione del film: la famiglia Benedini e Bianchi.
Ringrazio di cuore e con tutto il mio amore mia madre Fiorella, perché inconsapevolmente mi ha aiutato a costruire questo progetto, e Giovanni per aver condiviso con me una sigaretta nella fredda notte del 21 dicembre 2006.
Infine tengo a ringraziare tutti coloro che hanno sostenuto il progetto durante le sue fasi di ideazione, produzione e attuazione, ma allo stesso modo tengo a ringraziare anche tutti coloro che non lo hanno sostenuto o che in qualche modo possono averlo ostacolato: a modo loro hanno rafforzato e alimentato ancor di più la determinazione mia e della Jandha Film nel raggiungere gli obiettivi che ci eravamo posti.
Dopo questo lavoro non sono più felice di prima, non del tutto.
Questo film mi ha invecchiato, e non voglio scrivere il perché - sarebbe anche difficile spiegarlo e non sono più in grado di rispondere a nessuna domanda.
Ho voluto raccontare la speranza di un miglioramento nella propria vita. La forza di agire, di saper ascoltare i messaggi che ci arrivano, per arrivare a vivere un’esistenza diversa da quella che abbiamo fra le mani. Sono convinto che ci sia bisogno di uno spazio per riflettere e che la poesia ne apra uno importante.
La sincerità è cosa molto rara e quello che manca nel mondo che mi vedo attorno è il coraggio della responsabilità. Quello che siamo è una scelta che per diventare libera ha bisogno di un percorso non facile.
Sono anche convinto che ciò che siamo sia influenzato da fattori esterni non sempre controllabili.
La vita spesso è fortuna: il luogo in cui nasciamo, le condizioni di vita, il caso che ci porta a fare alcuni incontri piuttosto che altri, che ci porta in un punto e subito dopo ci catapulta senza avvisarci dalla parte opposta.
Sono però anche convinto che tutto ciò non sia assoluto, perché la possibilità di confronto maturo con se stessi, con la realtà attorno a noi, prima o poi arriva.
E la possibilità di scelta anche.

Marco Arturo Messina