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Note di regia del documentario "Tutte le Barche a Terra"


Note di regia del documentario
"Tutte le Barche a Terra" nasce da un sentimento di inquietudine e spaesamento, ma anche da un profondo amore per la città di Gallipoli; è frutto di quella ambiziosa scommessa che è il parlare di se stessi quando l’urgenza di raccontare tocca le corde difficili del chi siamo e come vogliamo vivere e di quali siano i nostri veri bisogni. Queste ed altre domande, per esempio su chi decide i nostri modelli di vita - e del perché ce ne lasciamo sedurre così acriticamente- animano questo documentario, che è frutto di una coralità di voci raccolte nel centro storico e nella periferia di Gallipoli in un arco di tempo piuttosto lungo (lo start delle riprese ha avuto luogo nel lontano 2004). Su tutte domina quella di Anna Papa, emblema della donna gallipolina, profondamente impegnata nel ruolo confortevole di madre, sorella e zia che provvede ai bisogni materiali di tutti, ma anche donna libera e inquieta, attraversata da un dolore non ben definibile e da una passione viscerale verso la propria città che diventa profondo comune sentire, quasi simbiotico e inevitabile. Il dolore personale del personaggio diventa riflesso di un dolore più grande, per la trasformazione scellerata dell’abitare che porta uno spaesamento lacerante.
Anna e i suoi coprotagonisti amano il proprio habitat e non saprebbero immaginare una vita diversa: innamorati del proprio vivere e del proprio ascoltarsi e venirsi incontro, in un ambiente in cui non esiste la solitudine, perché colmata di affettuose attenzioni, di solidarietà e comunicazione. Il centro storico di Gallipoli è abitato dai suoi abitanti originari, i gallipolini e proprio per questo motivo conserva ancora le risorse di una vita sana e protettiva, che consente ai bambini di crescere liberi esplorando strade e angoli nascosti, agli anziani di non essere soli, a tutti di comprare cibo sfuso e senza fatica, ogni giorno, fresco e quasi a domicilio, di parlarsi sorridendo, di esorcizzare i guai con la filosofia della vita condivisa.
Il film procede per scelta sul piano del documentario narrativo, seguendo la giornata tipo del centro storico, affezionandosi al nucleo familiare di Anna, ma anche a quella coralità di voci che man mano interagiscono con lei e trovano nel suo modo di reagire (il canto) l’unica chiave vincente per esorcizzare la paura e l’inquietudine.
Come regista di questo lavoro, frutto peraltro di postazioni di ripresa realizzate da un gruppo nutrito di operatori (tutti provenienti dall’esperienza formativa di Ipotesicinema), ho ritenuto che non fosse necessario fare inchiesta o reportage per percepire il senso di minaccia che abita le speculazioni edilizie e che attraverso il maquillage urbanistico si fa serio e definitivo stravolgimento delle abitudini sociali e culturali di un di un luogo qualsiasi. Va da sé che, seguendo di volta in volta i fili conduttori di questo racconto, personaggi cui ci si lega inevitabilmente, il paesaggio architettonico e quello narrativo conoscano le prime stonature già dalla prima alba del giorno dopo e che gli spiazzanti segnali del cambiamento diventino inequivocabili tracce di un’erosione sotterranea che avanza, decontestualizzando, privando, deprimendo e influenzando la vita dei protagonisti. Il racconto si spezza nell’armonia dei primi venti minuti, s’intravedono tracce di disordine, solitudini di anziani che vagano come fantasmi nelle macerie della trasformazione e si lasciano andare a uno sfogo estemporaneo su ciò che vedono accadere appena fuori dalla propria finestra. Il senso di crisi prorompe nelle parole di chi la vive e sente mancarsi l’autonomia del sostentamento come, letteralmente, la terra sotto i piedi.
Non una canonica intervista, solo qualche voce, persa nel tempo di un racconto che subisce questo disordine. Ho ritenuto che fosse più suggestivo sentire la vita di questi luoghi, lasciandoli parlare implicitamente, quasi identificandovisi e ascoltando il più possibile il senso dell’inquietudine come un’ingiustizia estranea, fuori da sé.
Le scelte sul nostro abitare del resto sono pesantemente influenzate da dinamiche economiche enormi e incuranti delle ripercussioni sulla qualità del vivere del singolo cittadino, che ha a stento il tempo di realizzare come negli anni sia cambiato il proprio modo di fare la spesa, di procurarsi le materie prime per vivere, constatando la difficoltà a svolgere il proprio lavoro in armonia o per lo meno in sintonia con un ambiente che è specchio delle proprie azioni. Queste ed altre tematiche correlate hanno animato lo spirito di questo lavoro e la necessità di indagare a fondo il tema dell’abitare, nel 2006, intorno al tavolo di Ipotesicinema (Laboratorio Sperimentale dell’Audiovisivo diretto da Ermanno Olmi). In quell’occasione, presentando un resoconto di quanto avevo girato sul posto seguendo il mio generico desiderio di realizzare un documentario sulla cittadina di Gallipoli e sui suoi bambini, (documentario che non è ancora finito nel montaggio, ad ora), il maestro Ermanno Olmi s’infiammò all’idea che ci fosse un comune sentire tra noi sull’urgenza dell’abitare e mi suggerì l’idea di realizzare un secondo film, andando a fondo sul tema e cercando di rendere le mie urgenze narrative attraverso la storia della gente di Gallipoli. Da qui la fiducia, anche fatta di sostegno economico, che la Cineteca del Comune di Bologna, ospite del Laboratorio Ipotesicinema, mi ha dato nel sostenere produttivamente la chiusura di questo documentario.
Il mio punto di vista coincide per scelta con quello dei protagonisti sposando genericamente il loro modello di vita (non privo di stridenti contraddizioni).
La storia di Gallipoli non è certo una novità nel paesaggio urbano italiano, che ha visto i centri storici dei più bei paesi di mare svuotarsi di vita vera e riempirsi di case lussuose e finemente ristrutturate e di inutili negozi di souvenir.
Forse Gallipoli, grazie anche al carattere dei suoi abitanti, rappresenta una solitaria e anomala frontiera di resistenza, almeno per il momento, in cui i due antitetici modelli di vita possono convivere perfino in modo bizzarro e creativo e offrire un punto di vista alternativo, da sostenere e valorizzare, in questo metabolismo vorace della vita contemporanea.

Chiara Idrusa Scrimieri