Note di regia del documentario "Un Passo Dietro l'Altro"
ALCUNE CONSIDERAZIONI SU UN PASSO DIETRO L’ALTRO.
Il progetto di Un passo dietro l’altro nasce due anni fa quando casualmente sono venuto a sapere delle attività del Progetto Filippide, che lavora con ragazzi autistici e x-fragile. Fino a quel momento, dell’autismo non sapevo nulla a parte quello che si poteva capire guardando Rain Man, e tanto meno sapevo del ritardo mentale a parte il fatto di avere un lontano cugino con problemi mentali che avevo visto si e no due volte in tutta la mia vita. È stata quindi una vera e propria scoperta, un salto nel buio non solo mio ma anche e soprattutto dei genitori dei ragazzi e dei ragazzi stessi. Ho capito immediatamente che non potevo soffermarmi esclusivamente sul fatto che questi ragazzi facessero dello sport, ma che invece dovevo utilizzare la chiave dell’attività sportiva per raccontare i ragazzi stessi, la loro quotidianità, le loro famiglie, tra problemi che sembrano insormontabili e piccole gioie quotidiane. Lo sport mi ha però permesso di disegnare una parabola di crescita dei ragazzi che, come accade in molti film sullo sport, partono da un campetto sterrato e arrivano a disputare una gara nazionale con tanto di trasferta in aereo, e questo rende ancora più avvincente la trama del documentario.
L’idea era che la realizzazione del video ci impegnasse per sei mesi. In realtà sono stati necessari 14 mesi di riprese. L’ultimo giorno di ripresa è stato commovente. I ragazzi erano diventati nostri amici, avevamo imparato a convivere e soprattutto a comunicare. Quelli che nei primi giorni mi sembravano degli alieni con i quali non riuscivo a instaurare un dialogo, erano diventati compagni di intere giornate. Con loro mi sono divertito e ho parlato per ore. Ho scoperto un mondo, sorprendente e drammatico. Ho scoperto che loro sono in una gabbia: ci sembrano fuori dalla realtà, ma in realtà capiscono tutti e sono lucidi. C’è una gabbia che gli impedisce di comunicare con l’esterno e che, a volte, riescono a superare scrivendo. Tutto questo ho voluto farlo vedere, e credo che alla fine “la comunicazione tra persone” sia il cuore del mio lavoro.
Il documentario è stato girato per la maggior parte con camera a mano. Volevo un continuo movimento della camera che desse l’impressione del pedinamento dei protagonisti e che soprattutto ben si rapportasse con la corsa, attività comune a tutti i ragazzi. Anche molte delle interviste sono state effettuate con questa tecnica. La scelta del colore, come quella di non utilizzare alcuna luce artificiale o comunque non esterna alle location è stata fatta con l’intento di rendere la realtà e non creare alcun filtro tra l’immagine reale e quella video. Le splendide musiche originali di Doneddu e Selis mi hanno consentito a volte di astrarmi per creare piccole scene musicali che rappresentassero una pausa dalla dura realtà, un momento di riflessione. Attraverso le interviste, e con un po’ di fortuna sono riuscito a costruire una storia che, grazie anche ai ragazzi, sappia anche far ridere. Non c’è “patina” nelle immagini, ne tantomeno nelle interviste, tutto è diretto, duro e semplice.
SULLE RIPRESE.
Volevo che la telecamera non stesse mai ferma. Ho usato poco il cavalletto e spesso la camera a mano, non tanto o non solo per ragioni pratiche, ma soprattutto perché volevo che il movimento di camera richiamasse sempre la realtà, il ritmo della corsa, il movimento dei personaggi. Una sorta di pedinamento costante. Il mio desiderio era che lo spettatore si sentisse sempre all’interno di qualcosa di molto vicino e molto reale, per questo ho cercato, oltre al movimento, alche un immagine sporca, che avesse al suo interno molti elementi con i quali i protagonisti interagiscono, e che fosse imperfetta. Per fare questo ho pensato che, per prima cosa, la telecamera dovesse stare sempre molto vicina ai protagonisti e che la ripresa subesse variazione in base agli spostamenti dei protagonisti. Non è uno spiare, è un accompagnare il protagonista nelle sue azioni: la telecamera non si limita ad osservare, ma segue e interagisce col protagonista. Era quello che volevo per creare un punto di contatto tra i protagonisti del film e lo spettatore e per fare in modo di mandare questo messaggio: quello che state guardando è dannatamente vero. In tutto questo è stato importante l’aiuto di stefano deffenu, mio principale collaboratore durante tutte le riprese. Ci siamo confrontati costantemente sul tipo di ripresa da utilizzare, trovando la giusta via di mezzo tra la mia volontà di movimento, imperfezione, interazione, e la sua ricerca della precisione e della ripresa “buona”.
STORIA DELLA COLONNA SONORA.
Stimo Carlo Doneddu come musicista, oltre al fatto che è un amico. Conosco abbastanza bene la sua musica e soprattutto la sua sensibilità. All’inizio pensavo di non inserire musiche nel film. Pensavo che sarebbe stato ancora più forte l’impatto con la realtà se avessi lasciato spazio solo al rumore di ambiente. Poi ho sentito delle musiche di carlo. Erano le musiche per la colonna sonora realizzate da carlo per il film Sagràscia del mio amico Bonifacio Angius. Io ho collaborato a quel film come soggettista e sceneggiatore per cui ho seguito passo passo tutto lo sviluppo del lavoro fino alla colonna sonora. Insomma le musiche di carlo erano molto belle, e bonifacio mi aveva dato due canzoni che non aveva intenzione di usare nella colonna sonora, per fare delle prove con le immagini del mio documentario. La mia idea era di usare quegli “scarti” della colonna sonora di Sagràscia per musicare il mio film, ma quando ho fatto vedere il documentario a carlo, lui stesso mi ha detto che gli avrebbe fatto piacere fare delle musiche nuove e originali per il mio lavoro. Lì, coinvolto da carlo, è entrato anche fabio selis. Il documentario era già interamente montato, per cui carlo e fabio hanno realizzato delle musiche seguendo il ritmo del montaggio e delle immagini, quando possibile. E il risultato sono le musiche del documentario, che loro si sono sforzati di comporre seguendo le mie (confuse) indicazioni. Infatti il problema era che io, tecnicamente, capisco poco di musica, per cui le indicazioni erano legate a sensazioni, a sentimenti. Ecco, carlo e fabio sono stati in gradi di riprodurre in musica i sentimenti, le sensazioni che cercavo. E sono andati anche oltre, hanno dato alle immagini nuove sfumature. Il loro lavoro riempie ancora maggiormente di senso le immagini, aggiunge ritmo alle scene, e mi ha permesso di creare intere scene musicali che considero come dei veri e propri spazi di riflessione all’interno del mio film.
Gianni Tetti