Note di regia di "The Bosnian Identity"


Note di regia di
Una guerra accumula una quantità tale di congetture e interpretazioni in grado di occultare quasi spontaneamente quel nucleo centrale di umanità perduta e bisogno di memoria di cui si nutre il progetto "The Bosnian Identity". Le ritrattazioni e il negazionismo incontrano qui l'ostacolo della documentazione che sublima il reale per divenire mezzo di riflessione sulla realtà. Una realtà narrata con gli occhi dei bambini di quella guerra, gli stessi ragazzi che oggi si affacciano alla speranza di una rinascita. Le conseguenze del conflitto armato che ha distrutto la Bosnia Erzegovina a metà degli anni 90', in un continuo percorso di recupero di autocoscienza, oltre ogni sovrastruttura, si manifestano nei personaggi, così come si autodefiniscono nel linguaggio e nelle movenze i protagonisti di queste storie. Speranze, delusioni, gioie e momenti difficili vengono raccontati in prima persona divenendo la sceneggiatura non scritta del lavoro, il vissuto che parla di se stesso. Un racconto intimo e delicato del complesso contesto postbellico in cui ogni individuo ha vissuto la propria esistenza in Bosnia. Al calderone del dimenticatoio costituito dal fugace immaginario collettivo nutrito dai media tradizionali, si contrappone l'importanza delle piccole storie.

Approfondite e sentite. The Bosnian Identity è il mio modo di vedere la cultura bosniaca e musulmana all'interno di quel periplo di popoli e culture che da sempre costituivano l'anima di una Bosnia multietnica, lavata via col sangue. La straordinarietà di quel normale scorrere dei giorni, apparentemente sempre uguali eppure unici, è il grido alla vita di una terra pregna di morte. Un ritratto della società bosniaca in divenire, in un costante percorso di riconoscimento di se stessi, di recupero dal passato nel tentativo di ricerca e individuazione di una comune identità bosniaca. Luci e ombre disegnano le storie in un filo sottile tra la vita e la morte che scandisce tutto il racconto. Personalmente credo che una guerra, proprio perchè disgregante, distruttrice e destinata a lasciare ferite profonde negli uomini e nell'ambiente, abbia bisogno di un approccio antropologico per poter essere capita, digerita e superata. Ma non dimenticata. E rientriamo nel tortuoso percorso della memoria, dove malgrado il trascorrere del tempo, le cicatrici restano impresse sulla pelle della nazione. Non solo sul corpo degli edifici bombardati e distrutti che tutti i turisti vedono dai finestrini delle loro auto prima di essere rapiti dalla luce di Sarajevo. Nè nei fori delle mitragliatrici o nelle chiazze bianche del calcestruzzo usato per coprire i vuoti creati dalle bombe, che sembrano costellazioni immaginarie disegnate su tutto il territorio della Bosnia. Piuttosto, vediamo quei segni nella terra in cui vengono ritrovate migliaia di identità nascoste che a 17 anni di distanza dalla fine del conflitto l’International Commission on Missing Persons (ICMP) di Sarajevo e l'MPI tentano ancora di identificare. Per restituire loro un nome, ricordare il genocidio e permettere ai familiari di piangere i propri defunti su una degna sepoltura. E proprio le sepolture di massa ricordano i giorni della deportazione. Le fotografie e le immagini degli oggetti rinvenuti nelle fosse comuni sono il legame tra il passato e il presente. Un filo sottile che lega le vite delle vittime con quelle dei familiari, fino al ricongiungimento che segue all'identificazione dei corpi. Migliaia di mani in movimento sostengono il passaggio delle piccole bare fino ad arrivare a deporre i resti di un uomo che per sineddoche, rappresenta come parte per il tutto, l'anima di ogni uomo scomparso nella terra madre.

Matteo Bastianelli