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SOTTO18 - Intervista esclusiva ad Edgar Reitz


Il regista tedesco a Torino per la presentazione del suo ultimo "Die Andere Heimat"


SOTTO18 - Intervista esclusiva ad Edgar Reitz
"Die Andere Heimat" è il titolo del nuovo film di Edgar Reitz, un lavoro che ha solo una parola nel titolo in comune con l'opera colossale che gli ha dato la fama ("Heimat", trilogia - con epilogo - che raggiunge le 56 ore circa: "Quest'ultimo, che ne dura poco meno di 4, sembrerà corto al pubblico che mi ha seguito...", commenta ironicamente lui stesso) e che, dopo l'anteprima alla Mostra di Venezia, è stato presentato al Sottodiciotto Filmfestival di Torino, in attesa - si spera - che una distribuzione italiana si faccia avanti.

Prima della proiezione-fiume, il regista tedesco si è concesso per un'intervista.

Da dove è nata l'esigenza di raccontare questa storia?
Questo film racconta una storia a cui avevo già pensato moltissimo tempo fa, era uno dei miei progetti più vecchi, ho ritrovato dei cenni risalenti al 1980, subito prima di girare la trilogia di Heimat.
Già allora mi era parso evidente che sarebbe stato un film solo per i cinema, per la fruizione in sala, ma avevo già iniziato a lavorare alla trilogia, che era una co-produzione televisiva, e ho dovuto rimandare il progetto fino ad ora.
Voglio sottolineare che questo film non ha nulla a che fare con la trilogia, che per me si è conclusa con il "Fragmente", l'epilogo che ho presentato a Venezia nel 2006.
Appena concluso quel progetto, mi sono dedicato immediatamente a questa vecchia idea, ambientata a metà '800, con sullo sfondo l'emigrazione di massa di popolazioni in miseria che abbandonano le loro case. È presente nel film anche un parallelismo con la situazione odierna, dove ci troviamo nuovamente di fronte a esodi di massa, ma in direzione inversa.
L'altro tema del film, il principale forse, è la contrapposizione tra due personaggi, due giovani fratelli profondamente diversi tra loro - uno più realista, l'altro più utopista -, un dualismo di cui mi occupo da sempre, da una vita intera: è sempre stato il più grande tema della mia carriera.

Torna però anche in questo caso nel titolo la parola "Heimat"...
Sì, è una parola intraducidibile dal tedesco, vuol dire 'madre patria' ma ha molte sfumature di significato. Tuttavia una delle infinite interpretazioni che può avere è importante per questo mio film: quando cercavo un titolo, mi sono detto: perché non usarla ancora? In questo caso 'heimat', la madrepatria, il luogo d'origine ha qui una connotazione negativa, qui le famiglie sono costrette ad abbandonarla, ne presento una visione negativa.
Si parla di un'altra 'patria', un altra 'heimat': è innegabile che dentro di me c'è un vincolo innato con quel lavoro.
Anche se il film viene presentato diviso in "capitolo 1" e "capitolo 2", per me è una storia chiusa, non prevedo di realizzarne un "3" prossimamente: tutto sommato, quindi, non durando neanche quattro ore per me è un film breve...

"Die andere Heimat" si presenta nuovo anche per il lavoro sulla fotografia.
È un film girato interamente in digitale, il primo della mia carriera.
Per la prima volta non mi sono occupato di un film con la pellicola fotochimica, tutto è stato realizzato digitalmente, dalla macchina da presa alla post-produzione. Oggi possiamo considerarci come pionieri in quest'ambito, possiamo ricominciare da capo come i nostri avi, possiamo formulare nuove idee, nuove postille estetiche: il film è in bianco e nero, ma non in senso classico, è stato elaborato in post-produzione. Pur non essendomene mai occupato prima ho fatto moltissime ricerche in materia, potrei parlarne per ore!
Non rimpiango la fine della pellicola, come altri miei colleghi, anzi: il digitale getta le basi per un nuovo capitolo della storia del cinema, è un mezzo che ci ha dato estrema libertà, prima era impensabile. Ora io posso decidere cosa fare e quando farlo, se usare o meno elementi a colori, in questo film ci sono alcuni oggetti che appaiono colorati, ed è stato semplicissimo farlo. Il digitale lo vedo come uno strumento poetico nelle nostre mani.

Nel 1962 lei e un gruppo di giovani registi tedeschi firmaste il Manifesto di Oberhausen: quale bilancio fare oggi di quella esperienza?
Da quando è stato celebrato il 50esimo anniversario di quel fatto sono state tante le manifestazioni che se ne sono occupate, per capire che bilancio trarne, ma a nessuno di coloro che ci ha provato è riuscito di capire bene esattamente quella generazione.
A quei tempi siamo stati la prima generazione che si è veramente occupata di cinema, di cinema tedesco da presentare al mondo intero.
Con tutti i miei colleghi firmatari si è sviluppata un'amicizia fortissima, siamo sempre molto uniti, sempre in contatto, si è creata una relazione molto stretta e forte, è il risultato di questa lotta che abbiamo fatto insieme. Una cosa così non si è mai più verificata nel cinema, i registi sono in lotta tra loro per il successo, noi invece siamo riusciti a mantenere rapporti di amicizia molto salda, e questa per me è la voce più importante da mettere a bilancio.

Da queste amicizie è nato il cameo in questo film di Werner Herzog...
Esatto, ha colto nel segno: c'è lui nel film perché tra noi ci sono diversi punti di contatto, i nostri rapporti sono rimasti molto stretti. C'è affinità, anche se non si direbbe dall'esterno, sembriamo due anime contrapposte che si dedicano a ricerche contrapposte.
Lui è andato sempre alla ricerca di cose lontanissime dal suo punto di origine, io ho cercato le sue stesse risposte ma rimanendo legato al mio piccolo paesino originario di Schabbach. Siamo agli estremi, ma siamo afffini come personalità, siamo due romantici tedeschi.
Per questo è nel film: lui vive in california, gli ho scritto una mail e lui ha accettato ma solo se c'ero anche io davanti alla macchina da presa! Così ci siamo ritrovati una scena insieme.

Come giudica il cinema tedesco odierno?
La situazione è questa: ci sono molti più giovani di talento di quanti possiamo immaginare, sono tanti i ragazzi di oggi che sanno come fare cinema, io insegno cinema e lavoro gomito a gomito con loro, sono bravi e talentuosi.
Ma la situazione oggi è difficile per loro perché non hanno la possibilità di esprimersi come vorrebbero, mi stupisce vedere quante opere prime vengono fuori da questi ragazzi, vedo molte virtù, ma poi spariscono
In Germania ci sono quattro scuole di cinema e tante università, escono 120-150 nuovi registi l'anno e dopo il loro primo film per la tesi, una 50ina di loro arriva al film d'esordio, poi al secondo film ne arrivano una decina, e al terzo piano piano scompaiono...
Ogni anno vedo accadere questa cosa, anno dopo anno, una situazione identica e penosa: non vorrei essere nei loro panni, non vorrei essere giovane in questo momento storico!

12/12/2013, 15:22

Carlo Griseri