Fondazione Fare Cinema
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"Scenografia e scenografi", un libro di Sara Martin


Uno dei mestieri piů affascinanti e importanti nel cinema č senza alcun dubbio quello dello scenografo al quale spetta il compito di individuare e creare il giusto adattamento ambientale ed atmosferico dell’opera.
Lo scenografo č quello che inventa la sostanza plastica ed architettonica di un film, contribuisce “al risultato estetico, traduce visivamente il tono dell’opera, connota il genere o lo stile e intrattiene uno stretto legame con gli altri elementi della rappresentazione”, il suo lavoro serve, insomma, a costruire i personaggi e l’azione che li lega.

Come dimostra Sara Martin nel suo volume “Scenografia e scenografi” (Il Castoro Editore), il cinema italiano č stato una grandissima scuola di architetti dell’ambientazione, si pensi ad Alfredo Manzi (“Assunta Spina”), Italo Tomassi che ha lavorato in piů trecentocinquanta produzioni (sua č la ricostruzione del Colosseo in “Roma” di Fellini e la sagoma del transatlantico in “Amarcord”, altro capolavoro felliniano), Virgino Marchi ( “La macchina ammazza cattivi”, “Europa 51” ), Gianni Polidori, Piero Gherardi, Mario Garbuglia, Giulio Bongini, Carlo Simi (inventore degli immaginari degli spaghetti western) Enrico Job, Lino Fiorito, l’hollywoodiano Ferdinando Scarfiotti e, naturalmente, il maestro-dei-maestri Dante Ferretti, celebratissimo in tutto il mondo per il suo genio creativo attento, soprattutto, ad esaltare i dettagli di un interno o un esterno.

Č interessante il libro della Martin, in quanto permette di sfogliare velocemente pezzi di storia del cinema, seguendo il lavoro degli scenografi che oggi, sempre piů, si appoggia alla tecnologia digitale. Ma, sicuramente, le pagine che piů appassionano sono quelle in cui vengono esaminati scenograficamente i film “Cabiria” (1914) di Giovanni Pastrone, “Germania anno zero” (1948) di Roberto Rossellini, il peplum “Ulisse” (1954) di Mario Camerini, “La dolce vita (1960) di Fellini, “Il gattopardo” (1963), ma ancora piů avvincente č la lettura in parallelo dal lato scenografico di due capolavori del cinema italiano, entrambi girati cinquant’anni fa: “Il deserto rosso” di Michelangelo Antonioni e il pasoliniano “Il vangelo secondo Matteo”.

Nel primo film lo scenografo Piero Poletti esplora “soluzioni inedite e sperimentali” e, in particolare, punta ad una manipolazione del colore e degli esterni tale da rendere visibile una certa “volontŕ di interiorizzare lo spazio”. Nel “Vangelo” Luigi Scaccianoce e Dante Ferretti, nell’assecondare la volontŕ di Pasolini, costruiscono le scene per intercettare riferimenti cinematografici (Dreyer, Mizoguchi, Godard) ed evocare temi pittorici e musicali a tutti i livelli: si pensi da una parte a Piero della Francesca, Masaccio, Giotto e dall’altra a Bach, Weber, Mozart, alla messa Massonica.
Nel Vangelo “il potenziale dello spazio č rappresentato dalla contaminazione magmatica tra la sacralitŕ dell’oggetto narrato e la quotidianitŕ dei luoghi resi sacri dell’autore. I collaboratori di Pasolini manipolano lo spazio , l’ambiente, il colore in funzione dei personaggi, potenziati ed addirittura sacralizzati dello spazio in cui si muovono .

Scrive ancora Sara Martin: “Pasolini si allontana dalla rappresentazione canonica del Vangelo e si serve di spazi architettonici (i Sassi di Matera) che hanno un’eccedenza di significato autonomo rispetto all’universo narrativo che l’autore intende rappresentare. I Sassi sono riconoscibili e mantengono residui di significati propri, nel caso del Vangelo , non solo costituiscono un’eccedenza ingombrante in senso negativo , ma al contrario producono un arricchimento reciproco tra il film e l’oggetto architettonico , coinvolgendo la forma e il senso di entrambi”.

08/05/2014, 08:08

Mimmo Mastrangelo