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Note di regia di "fuoriClasse – la scuola possibile"


Note di regia di
Quando ho iniziato a pensare a questo film, per prima cosa ho cercato le mie maestre elementari. Osservando il loro lavoro da un punto di vista sospeso fra le memorie infantili ed il mio sguardo adulto ho incominciato a vedere alcune cose.

La scuola elementare è una delle pochissime esperienze che tutti gli italiani condividono.

Per i bambini è il primo momento in cui si esce veramente dal nucleo protettivo della famiglia e ci si confronta con un mondo condiviso, regolato e organizzato in un sistema di aspettative e secondo un percorso di crescita. Da un punto di vista adulto, è il luogo in cui ci si misura con la salute ed il senso della nostra democrazia – perché a scuola ci vanno tutti, e tutti debbono essere accolti ed accompagnati- ed il luogo in cui si affronta l’alterità più prossima e irriducibile: l’infanzia.

Eppure questo luogo centrale è un luogo in larga misura ignoto. I bambini, quando non sono i nostri figli, stanno alla periferia del discorso pubblico, chiusi là dentro, in attesa che diventino adulti. Per questo mi piaceva l’idea di entrare in molte scuole; ed avrei voluto raccontarne la normalità, ma mi sono trovato invece di fronte a delle cose eccezionali, per bellezza intrinseca e per portata di crescita, di trasformazione.Ed il centro del film, credo, è proprio nel restituire quanto questi laboratori siano meravigliosi – e che lo sono forse perché frutto di un’alleanza: fra maestre da un lato e animatori che vengono da fuori la scuola dall’altro, una comunità diffusa di fare scuola, con i bambini al centro.

Per raccontare tutto questo, la camera è sempre stata ad altezza bambino; ma soprattutto il film è girato assieme ai bambini. In ogni classe in cui io e Michele siamo entrati, per prima cosa abbiamo messo in piedi un brevissimo laboratorio di video partecipativo, recuperando e riadattando metodi che in ZaLab utilizziamo da dieci anni. I bambini hanno messo le mani sulle attrezzature – esattamente sulle stesse attrezzature che abbiamo poi usato per girare – se ne sono impadroniti e le hanno messe in funzione. Abbiamo giocato ad intervistarci reciprocamente, i bambini fra di loro e soprattutto – erano curiosissimi, e pure un pò irriverenti – i bambini a noi. Abbiamo rivisto e discusso il materiale. Quando poi siamo tornati a filmare i laboratori, ben più complessi ed ambiziosi, che nelle varie scuole si stavano realizzando, la nostra presenza era parte del gioco, e come funzionavamo e ciò che facevamo era chiaro e condiviso.



La cosa più immediatamente percepibile, filmando, era la gioia, l’impegno, il casino ed il colore di una masnada di bambini scatenati, fuori e dentro la classe, ai quattro angoli del paese. Un’incredibile bellezza. Era certamente un punto di partenza, ma ho cercato di andare oltre l’ottimismo della specie che *costringe* ad essere complici ed inteneriti. Oltre in due direzioni precise.

La prima è stata osservare situazioni di allentamento o dissolvimento della gerarchia adulto-bambino che a molti sembra ancora fondamentale. Nel film si entra ed esce dalla classe, non c’è il maestro alla lavagna che parla e gli alunni che ascoltano, salta la relazione verticale per dare vita ad un lavoro di gruppo, cooperativo, in cui comprendere e poi agire è un processo che coinvolge necessariamente tutti, ed ognuno ci porta dentro un pezzetto. Ebbene, in tutte queste situazioni si è creata un’autodisciplina di gruppo, un ordine che ha permesso a processi complessi di andare in porto coinvolgendo tutti e senza (troppe) urla. Una disciplina che è, certo, frutto del lavoro di anni delle maestre e dei maestri, perché la libertà si apprende, e non con facilità. Ma una disciplina con una forte base spontanea. Perché non c’è nessuno di più serio di un bambino che gioca. Per un certo periodo, il film sembrava voler prendere il titolo di “in-disciplinati”, proprio per mettere al centro questa affascinate autodisciplina della libertà; poi fuoriClasse ci è piaciuto di più.

La seconda direzione è la densità e la profondità fulminea del pensiero infantile.

I bambini hanno qualcosa da dire ed è intelligente stare zitti ed ascoltare perché ce n’è da imparare. E non tanto perché siano portatori di chissà che purezza, ma perché hanno due privilegi.

Uno è il privilegio della sorpresa, e quindi della meraviglia: in un anno di lavorazione ho visto centinaia di “prime volte”: la prima volta in un bosco, o con un microfono in mano a fare domande agli adulti, ed anche, più semplicemente, la prima volta che si parlava con qualcuno con un accento buffo, non del posto, o che si scopriva come si fanno le moltiplicazioni.

E l’altro è il privilegio del futuro. Mi piacerebbe che alla fine del film gli adulti potessero uscirne alleggeriti, scaricati dall’ingombro e dalla densità dei passati che ci portiamo addosso, pronti a ritrovare degli stupori.