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FESTIVAL DEI POPOLI 58 - Intervista a Gabriele Licchelli


Il regista racconto il documentario ambientato in un paesino del leccese, in cui un gruppo di giovani migranti viene ospitato in un vecchio albergo sul mare.


FESTIVAL DEI POPOLI 58 - Intervista a Gabriele Licchelli
Gabriele Licchelli
"Arca Hotel " di Gabriele Licchelli e Santiago Raphael Priego, presentato in anteprima italiana alla 58a edizione del Festival dei Popoli, è ambientato in un paesino del leccese, in cui un gruppo di giovani migranti viene ospitato in un vecchio albergo sul mare. A parlarcene è il regista Gabriele Licchelli.

Il film si apre con un pescatore che esce dall'acqua dopo aver recuperato qualcosa, immagine particolare per un documentario che racconta la migrazione, e tragicamente abituati ad un mare che restituisce corpi e memorie di qualcosa andato perduto...
E' vero, la prima è sostanzialmente una scena di pesca, ma nello stesso tempo cercavamo un'immagine evocativa, che abbiamo trovato in questa torre che sta per cadere immersa dentro l'acqua, un luogo dove la terra e il mare si uniscono in modo non così netto e chiaro. Lidea di qualcuno che recupera qualcosa dal mare è poi anche legata alla nostra identità, perchè abbiamo sempre vissuto di accoglienza, di commistione di culture e popoli. Inizialmente immaginavamo una battuta di pesca notturna, poi i tempi sono stati un po ristretti e il mare in quei giorni non era l'ideale per uscire in barca, quindi abbiamo optato per una ripresa da terra di una persona che in modo anche un po goffo esce da quest'acqua, idealmente recuperando qualcosa.

Quanto a lungo siete stati li per conoscere le storie dei ragazzi e come è avvenuta la scelta dei personaggi da raccontare?
Siamo stati molto poco, una volta per una settimana, per costruire delle relazioni, e poi altre due settimane per girare ed individuare le persone che ci sembravano più aperte. Non è facilissimo questo, perchè è gente con un vissuto complesso che stanno li arenati. La scelta delle storie è avvenuta per empatia, in modo del tutto naturale, tranne per la scena centrale, quella della barca, perchè in quel ragazzo avevamo trovato una grande potenza comunicativa e sapevamo che sarebbe stato lui il protagonista di quella scelta.

Una delle scene centrali del film è quella del Carnevale, in cui maschere di culture distanti e commerciali, come può essere quella dell'Uomo Ragno, si mescolano ai costumi originali africani, indossati da chi rivendica una propria identità. Tutto questo sotto gli occhi giudicanti di anziani signori del luogo. Come è nata quella sequenza?
Del Carnevale ne siamo venuti a conoscenza stando li. I ragazzi vengono coinvolti in una serie di attività, che hanno la finalità di restituire loro un posto nel mondo, e ad esempio una delle cose belle è stato per il ragazzo che cuce i costumi, la rivendicazione del suo vero lavoro, quello del sarto. Poi è vero, c'è un voler richiamare attraverso i costumi la propria identità, agli occhi di guardava quella situazione con sospetto. Si trovavano davanti ad africani che vestivano da africani, e per giunta dotati di una vitalità incredibile, in un paese invece molto vecchio, in cui i giovani mancano da un pezzo. Quella vissuta dagli anziani del luogo è una discriminazione nata da una mala informazione che mette loro paura, e da un'assenza di veri e propri luoghi d'incontro.

C'è un gran rumore attorno a ciò che sta accadendo in questo momento, provocato da una cattiva informazione che trasmette messaggi spesso distorti. E in mezzo a questa situazione, i ragazzi africani prendono la parola e chiedono ad alta voce di essere ascoltati. Pensi che alla fine si potrà ripartire proprio da quella piccola richiesta, ma di così grande valore, dall'ascolto?
E' la grande domanda del film, riusciranno questi ragazzi ad integrarsi, nonostante le differenze che esistono? O meglio ancora, come avverrà questa relazione tra loro e i cittadini del posto? La chiave è proprio l'ascolto, quello reciproco, perchè se l'altro è diverso da te, con delle sembianze che non riconosci, allora ti fa paura, ma se invece assume un nome e cognome, allora può starti simpatico. Potrai amarlo o odiarlo, ma come persona, non come etichetta, migrante, profugo o richiedente asilo. Si danno dei nomi, delle etichette, e ci si scorda delle loro storie a favore di freddi numeri che non portano a nulla.

15/10/2017, 17:56

Antonio Capellupo