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FESTIVAL DEI POPOLI 59 - Intervista a Livia Giunti


La regista toscana racconta la genesi del suo nuovo doc "N A T U R A L E - Il Teatro delle Ariette".


FESTIVAL DEI POPOLI 59 - Intervista a Livia Giunti
Livia Giunti
In concorso alla 59a edizione del Festival dei Popoli con il doc "N A T U R A L E - Il Teatro delle Ariette", abbiamo intervistato la regista Livia Giunti.

Come hai conosciuto il Teatro delle Ariette, e cosa ti ha spinta ad esplorare la vita di Paola e Stefano?
Si tratta di un progetto di ricerca in cui mi hanno coinvolto delle colleghe di teatro dell’Università di Pisa, Torino e Parigi nel 2015 e che ha ottenuto un piccolo finanziamento con il bando Galileo15 dell’Università franco-italiana. Il progetto prevedeva uno studio delle compagnie teatrali “a conduzione familiare”, potremmo dire, tra Italia e Francia e tra queste compagnie ne avevamo individuate due in particolare, una italiana e una francese, esemplari rispetto alle questioni che si volevano studiare. Il mio coinvolgimento era legato alla realizzazione di un audiovisivo “sul campo” che potesse affiancare il lavoro di ricerca teorica ma anche vivere di vita propria, diciamo. E incontrare e provare a raccontare il Teatro delle Ariette è stata poi la scelta ideale sia dal punto di vista teorico che per la realizzazione di un piccolo film.

Attraverso il loro teatro, prettamente autobiografico, i due protagonisti cercano di esplorare la realtà. Da documentarista attenta alla narrazione del reale, cosa ti ha maggiormente colpito del loro lavoro?
Mi hanno colpito tantissime cose, è stato una specie di colpo di fulmine fin dal primo incontro. Il teatro è stata la mia prima passione da bambina, prima del cinema, e da più grande gli ho anche dedicato molto tempo e poi l’ho purtroppo amaramente abbandonato. Sento una profonda affinità con la narrazione e le scelte di vita di Paola e Stefano e ho come l’impressione che siano riusciti a realizzare un’utopia che in maniera un po’ indefinita e forse immatura avrei voluto realizzare quando avevo vent’anni: far convivere teatro e vita. Poter conoscere questa realtà e poterla raccontare con il documentario è stata per me una grande gioia, anche se la loro esperienza meriterebbe un lavoro di ben più ampio respiro.

Nelle interviste, nel raccontare sacrifici e gioie del quotidiano, appaiono così sinceri e naturali da emozionare attraverso il loro emozionarsi. Come sei riuscita a creare questo livello empatico e di fiducia?
Il merito delle bellissime conversazioni realizzate con le Ariette a Parigi e in Valsamoggia (Bologna) è di Giulia Filacanapa, Erica Magris ed Eva Marinai, che mi hanno coinvolto nel progetto e hanno condotto con grande professionalità e passione le interviste. Tutto è cominciato a Parigi e avrebbe dovuto concludersi lì ma l’incontro con le Ariette è stato talmente caloroso e stimolante che le riprese poi sono continuate anche in Italia e così è cominciata anche la nostra frequentazione. Quindi direi che il risultato è un mix di capacità affabulatoria delle Ariette, di empatia che si è creata fra le studiose e la compagnia, e in ultima istanza anche dell’empatia che si è creata tra la troupe (io e Francesco Andreotti che mi ha affiancato durante le riprese) e Paola, Stefano e Maurizio. Questa speciale ricetta (!) ha fatto sì che al montaggio queste interviste potessero funzionare come racconti veri e propri, una specie di prolungamento del loro spettacolo. E di fatto lo sono perché il loro teatro è anche quella cosa lì. E poi, chissà… forse anche il fatto che io ed Erica Magris fossimo simultaneamente in gravidanza (con un mese di scarto l’una dall’altra) ha fatto sì che si creasse una particolare energia!

Sei stata testimone di un loro spettacolo in Francia, e girando sei stata attenta osservatrice del pubblico che li circondava e ne rimaneva folgorato. Ti sei spiegata il segreto del successo di uno spettacolo tanto "semplice" quanto complesso?
L’osservazione e l’interpellazione del pubblico era uno degli elementi della ricerca e nel caso delle Ariette ha un ruolo particolarmente importante, come si evince dal film. Ho potuto vedere lo stesso spettacolo due volte anche in Italia ed è interessante notare come le dinamiche possano lievemente modificarsi in relazione allo spazio, alla lingua, al tipo di pubblico/comunità. Lo spettacolo di Parigi da questo punto di vista è stato esemplare perché erano presenti tante tipologie di spettatori diversi, ed è stato un grande successo. Credo che il segreto di questo risultato stia nell’idea di teatro che hanno le Ariette, un teatro comunitario, di reale condivisione e nutrimento reciproco (durante i loro spettacoli si beve e si mangia insieme, si ride insieme, ci si scambiano occhiate, piccoli commenti, portate…), in cui i confini si abbattono e gli attori sono come amici che ti invitano a casa loro per raccontarti qualcosa della loro vita che inevitabilmente ti induce a riflettere sulla tua di vita. Stefano e Paola possiedono il logos, sono riusciti a fare chiarezza e a dare un senso alla loro vita, e nei loro spettacoli riescono a creare relazioni limpide e profonde tra le cose e le persone, conducendo gentilmente per mano lo spettatore dentro la complessità della storia e delle storie in modo semplice e genuino.

10/11/2018, 18:23

Antonio Capellupo