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PATTI IN FLORENCE - Intervista con Edoardo Zucchetti


10 Settembre 1979, stadio Comunale di Firenze, 80.000 persone. Sul palco Patti Smith che in quei giorni era in Italia per il tour Horses


PATTI IN FLORENCE - Intervista con Edoardo Zucchetti
Patti Smith a Firenze
Un concerto che ha segnato la storia italiana dei live rock, dal momento che nessun artista internazionale aveva più suonato nel Bel Paese dopo i disordini del 1971 che avevano avuto come protagonisti i Led Zeppeling e Carlos Santana. Patti, rimasta affezionata al capoluogo toscano, nel 2009 ritorna a Firenze per celebrare i trent’anni da quel sorprendente concerto che molti veterani ricordano ancora oggi ripetendo “Io c’ero”. E proprio da questa frase che prese il nome il concerto del 2009, “I was in Florence”; non solo, un giovane regista, Edoardo Zucchetti, venuto a conoscenza della presenza di Patti a Firenze, si arma di macchina da presa, che si fa prestare da un suo amico, e per giorni diventa l’ombra della rockstar americana mentre passeggia tra le viuzze fiorentine, quelle piene di botteghe che hanno reso Firenze capitale dell’arte in tutto il mondo. Nel 2015 la Smith ritorna nuovamente in Italia per un concerto ed è proprio lì che Zucchetti termina “il ciclo”, come lo chiama lui, di interviste. Un lavoro lungo anni che Edoardo è riuscito a portare a termine, un documentario che racconta il personale rapporto d’amore tra Patti Smith e Firenze.

Il documentario può considerarsi una “dichiarazione d’amore” alla tua città, oltre che un omaggio a Patti Smith che, negli anni, ha instaurato con Firenze una relazione di stima e ammirazione. Che rapporto hai con Firenze e quanto la ami?

"Eh Firenze! Amore e odio, cioè la amo molto e ho capito l’amore per la mia città quando vivevo a Londra dove ho studiato, ho lavorato e sono andato a scuola di inglese; quando ho iniziato i primi lavori in teatro tutti mi chiedevano di dove fossi e io rispondevo “Firenze”. Sono stati proprio gli inglesi che mi hanno insegnato a rispondere “based in Florence”, che sta a significare proprio la mia base, dove sono nato e dove ritorno sempre. Dopo quattro anni, trascorsi a Londra, nel 2015 sono rientrato in Italia e con il documentario su Patti Smith si chiude un ciclo. Provengo da una famiglia fiorentina, Firenze la amo sono cresciuto proprio per le sue strade e ho avuto la fortuna di visitare tutti i musei e tutti i luoghi più importanti che hanno contribuito alla mia formazione".

Nella la tua biografia si leggono incontri con tanti personaggi illustri.

"Ho un’autentica formazione fiorentina che ha raggiunto il punto più alto nel momento in cui andai a lavorare con Franco Zeffirelli per un paio d’anni. Ricordo che per tutto il periodo andavamo a fare le riunioni a casa sua, mi son formato anche stando in un angolo a guardare e ascoltare. Quindi Firenze me la porto dentro, la mia voglia di fare documentari sugli artisti viene dalle letture del Vasari, della raccolta in cui lui racconta le vite di Michelangelo, Cellini, Leonardo; quindi il mio amore è totale".

Patti Smith si può considerare un’artista “rinascimentale”, muove la sua arte a 360°; dalla musica alla poesia fino alla letteratura, ma anche fotografia, attivismo. Anche tu segui la stessa linea, nella tua carriera non ti sei occupato solo di cinema, ma anche di teatro e di opera.

"Ho fatto tanta gavetta in teatro e per l’opera lirica, mentre per la fase documentaristica sono autodidatta, mi sono avvicinato alle riprese grazie alla mia professoressa del liceo Teresa Megale che ci mandava in alcuni festival a girare delle immagini, stage e backstage; negli anni questo mi ha dato l’opportunità di lavorare in alcuni concerti. Successivamente ho visto “No direction home” su Bob Dylan di Martin Scorsese, poi “Buena vista social club” di Wim Wenders; questi due film mi hanno fatto venir voglia di raccontare, diciamo che mi hanno formato e influenzato allo stesso modo de “Le vite” del Vasari. Adoro narrare le storie, soprattutto in teatro, quando si abbassano le luci, si fa buio e inizia il racconto; il bello della sala teatrale è che puoi scrivere delle cose e le puoi far portare in scena. L’opera lirica invece è una magia che mi è stata trasmessa da Marco Gandini, Franco Zeffirelli, Terry Glilliam; non avrei mai pensato di fare opera, mi ci sono ritrovato per la voglia di fare cinema e ancora non sono riuscito e non riesco ad abbandonarla perché è la sintesi di tutto tra musica e persone. Il cinema è il mio sogno e il documentario è il mio inizio; mi sono avvicinato al teatro perché volevo fare cinema e perché ero convinto che si imparasse a dirigere gli attori solo in teatro e poi dietro la macchina da presa. Al contrario di un film, il documentario lo trovo più simile al teatro, è il cogliere l’attimo per portarlo sullo schermo, però è chiaro che il risultato finale passa attraverso il montaggio. In primis c’è sempre la mia mia voglia di raccontare storie, poi il mezzo può essere anche una foto su Instagram o un film presentato a un festival, ma alla base c’è sempre la voglia di raccontare".

Quindi riesci a “passare” da un’arte altra senza problemi, nonostante i linguaggi utilizzati siano differenti.

"Passare da un’arte all’altra è una cosa che mi “viene semplice” grazie al fatto che sono cresciuto in un ambiente come quello di Firenze e con una maestra che alle elementari ci ha fatto studiare tantissimo il Rinascimento, la Firenze delle botteghe. Per me è normale questo passaggio, come era naturale per uno scultore dell’epoca o un pittore arrivare a toccare altri aspetti di arte, per me è naturale girare un documentario piuttosto che uno spettacolo teatrale; sono linguaggi diversi e vanno saputi adoperare però è proprio per questo che ho fatto per dieci anni l’assistente alla regia in cinema teatro e opera".

Durante le riprese hai incontrato tantissime persone che hai intervistato. Con che criterio hai scelto chi intervistare?

"Un metodo che sto utilizzando è conoscere la persona che sto intervistando e per costruire un discorso omogeneo mi lascio consigliare da chi intervisto chi dovrà essere il prossimo con cui andrò a parlare; passare da una persona all’altra sotto consiglio della persona intervistata. Questo è un po’ pericoloso per le produzioni, praticamente è un lavoro senza fine, avrei potuto continuare per anni ad andare in cerca e far parlare le persone che dicevano di esserci state nel ’79 (Tour Horses, Firenze 1979, ndr). Costruisco la storia da persona in persona, cerco di capire e poi di andare alla ricerca di altri contatti da intervistare".

15/12/2020, 19:32

Sara Valentino