Note di regia di "La Stoccata Vincente"


Note di regia di
Per uno cresciuto a pane e pallone, la scherma era un territorio totalmente sconosciuto.
Quando poi ha iniziato a prendere forma la possibilità di dirigere questo film, un ritrovamento inaspettato si è rilevato con ineffabile sincronicità: da una soffitta impolverata è arrivato nelle mie mani un vecchio tesserino della Federazione Italiana Scherma. Nella foto in bianco e nero, mia nonna bambina, vestita di bianco, mostra fiera un sorriso da schermitrice. Accanto alla foto, un luogo e una data: Bengasi, Libia, 1936.

Nelle prime fasi del lavoro, collaborando alla stesura della sceneggiatura, ho sentito di dover entrare come un ospite in questo racconto: la verità del materiale umano era già così potente nella sua essenza che qualsiasi velleità autoriale, qualsiasi espediente drammaturgico, sarebbe risultato non indispensabile. Bisognava soltanto mettersi in ascolto, individuare i conflitti profondi e i punti di svolta del racconto, illuminare le parti nascoste di questa storia lunga 28 anni e tradurli nel linguaggio delle immagini.

Ho intervistato Paolo a lungo, di giorno e di notte: desideravo capire il confine tra la passione (per uno sport) e l’ossessione (per un traguardo), comprendere il punto esatto in cui un sogno può trasformarsi in una gabbia, un gioco in un mestiere, un impegno in un sacrificio. Attraverso le parole di Paolo, sono arrivato a comprendere il suo segreto più grande, quello che probabilmente condivide con tutti i campioni di ogni epoca, di ogni disciplina e di ogni frontiera: il raggiungimento di un equilibrio assoluto dove passione e ossessione convivono, che fa spingere il tuo corpo oltre ogni limite senza farlo spezzare, che ti consente di ripetere un gesto milioni di volte alla ricerca della perfezione senza farti perdere la testa, che fa stare insieme vita privata e vita sportiva, che ti fa rialzare quando perdi e non ti fa cadere quando vinci.

Il legame che andava formandosi con Paolo mi ha imposto di iniziare le riprese con un rigore e un trasporto incondizionato. La battaglia con la malattia, il rapporto con il padre, il legame e la scomparsa del suo maestro, l’incontro con la donna della sua vita, erano tutti elementi così radicati nella vita reale, che tutti noi abbiamo cercato di tradurli nel linguaggio cinematografico con la massima cura e il più infinito rispetto. Sul set ho focalizzato alcuni obiettivi primari: dare ritmo a un racconto che in 100 minuti doveva contenere tre decenni, proteggere e risaltare il calore emotivo di alcuni momenti particolarmente delicati, restituire l’eleganza e il dinamismo custoditi nel linguaggio non verbale della scherma.

Quando abbiamo girato la scena della finale della coppa del mondo, Paolo mi ha preso da parte e mi ha chiesto: “Lo sai che giorno è oggi? È il vero giorno in cui io, 11 anni fa, ho vinto la coppa del mondo”. Ancora una volta un segno – più di una coincidenza – bussava al mio lavoro di regista.

Alla fine del film ho scoperto che la misura - la giusta distanza con l’avversario nella scherma - è lo spazio opportuno tra noi e le cose della vita, quella capacità di saper distinguere quello che non dipende da noi (ad esempio un tumore) da quello che dipende da noi. Ho compreso che la guardia, l’attacco, la difesa, il colpire senza essere colpito, il saper cogliere l’attimo propizio per sviluppare le proprie azioni, sono espressioni e immagini che travalicano la pedana e descrivono l’esistenza, di tutti noi.

La mia speranza è che il film possa circolare anche tra i ragazzi più giovani, sportivi e non. Che possano intravedere nella nostra storia la fortuna impareggiabile di trovare una passione che accenda l’entusiasmo, un maestro che illumini le nostre ombre, una famiglia che ci sostenga e un amore che ci renda migliori.

Nicola Campiotti