Dopo aver realizzato alcuni film sul mio paese di origine, l’Iraq, e sulla diaspora della mia famiglia, vorrei tornare ora al mondo in cui vivo, in Svizzera, dove ho trascorso parte della mia infanzia. Da bambino non sapevo che eravamo arrivati in Svizzera come rifugiati politici. Ho appreso solo da adolescente che mio padre, temendo per la sua vita a causa dell’attività politica che svolgeva in Iraq, aveva deciso di trasferirsi con tutta la famiglia nel Paese di origine di mia madre, la Svizzera appunto. Dopo aver vissuto per sei mesi in una soffitta ci trasferimmo presto in un appartamento economico di quattro stanze: mia madre proveniva da un classico ambiente operaio svizzero e per questo riuscimmo rapidamente a trovare un appartamento in cooperativa. Abitavamo a Dübendorf, vicino a Zurigo, in un tipico sobborgo operaio, perloipù di recente costruzione. A quel tempo, eravamo praticamente gli unici "stranieri" nel complesso di case popolari. Ma da bambino non mi sentivo straniero. Forse ero un po’ esotico per gli altri bambini, per la pelle olivastra, i capelli neri, gli occhi scuri, ma avevo rapidamente imparato la lingua, lo svizzero-tedesco, e quindi mi sono "integrato" in fretta nel quartiere. Mi sentivo molto a mio agio tra i miei compagni svizzeri. Allora c'era un grande senso di comunità nel quartiere e tutto era ben organizzato. È così che sono cresciuto e mai avrei mai potuto immaginare, allora, che questa vecchia e rassicurante cultura operaia un giorno avrebbe cessato di esistere. Questo bel quadro ha cominciato a 7 incrinarsi per me nella seconda metà degli anni Sessanta. Succedeva che più crescevo, più mi sentivo emarginato. Sempre più spesso mi veniva chiesto: "Da dove vieni veramente? Dove ti senti più a casa? Perché non sei svizzero?”. Era diventata un’ossessione e io mi irritavano sempre di più. Ormai succedeva di continuo che venissi etichettato come "straniero", come quelli lì, come gli italiani, come gli tschingg (termine dispregiativo con cui venivano chiamati gli italiani nella Svizzera tedesca). Nel 1970, quando avevo 15 anni, ci fu il famoso referendum sulla proposta Schwarzenbach contro il cosiddetto ‘l’inforestierimento’, l’eccesivo numero di immigrati rispetto alla popolazione locale. Una vittoria avrebbe comportato l’espulsione immeditata di oltre 300 mila immigrati. La proposta venne respinta, ma di strettissima misura. Ma da quel momento l'esperienza di esclusione divenne sempre più dominante nella mia vita. E aveva un nome: razzismo. Il ricordo di questo punto di svolta è formulato nel titolo provvisorio di questo progetto di film: La prodigiosa trasformazione della classe operaia in stranieri. Quello che posso descrivere come un processo soggettivo, cioè la sensazione di passare dalla condizione del bravo ragazzo figlio di ‘poveri’ rifugiati a ‘fottuto straniero’, corrisponde anche a una trasformazione sociale. Nel corso della mia ricerca sono rimasto molto colpito quando mi sono reso conto che i sindacati avevano attivamente messo ai margini i lavoratori immigranti già all'inizio degli anni Sessanta. Intere sezioni sindacali erano guidate da xenofobi dichiarati che non volevano occuparsi dei loro colleghi italiani e spagnoli. Con la forza dello Statuto dei Lavoratori Stagionali e di altre leggi sugli immigrati è stato introdotto un silenzioso apartheid nei confronti degli italiani e una segregazione che dura tuttora, ma non più per gli italiani, che in due generazioni sono diventati svizzeri o sono tornati in Italia. Ora la segregazione colpisce i nuovi migranti, quelli che vengono da paesi extra-europei... Allo stesso tempo, la classica cultura operaia svizzera si è lentamente dissolta e oggi si può dire che non esiste più. I lavoratori svizzeri si fregiano di appartenere alla "classe media" e i vecchi termini che appartengono alla cultura operaia non ci sono più. Sono convinto che questo processo, dall'inizio degli anni '60 alla fine degli anni '70, abbia costituito la base per l'emergere dei nuovi "populismi" o sia la base per l'istituzionalizzazione del razzismo in una moderna società globalizzata. Con questo film vorrei provare a raccontare questo processo dal punto di vista dei lavoratori immigrati. E’ certo che la forza proveniente dalle migrazioni finisce per plasmare le società. Ma questa forza non è stata adeguatamente presa in considerazione finora. Con il mio film vorrei contribuire da una parte a tenere vivo il ricordo di un percorso umano, culturale e sociale che ha qualcosa di epico, per il paese da cui si parte e per quello in cui si arriva. D’altra parte vorrei riportare l’attenzione su un fenomeno che ormai è stato assorbito ma che si ripresenta in tutta Europa in forme nuove.
Samir