Fin dall’inizio ho subìto il fascino di personaggi diversi tra loro, i Rosci dai Ciccioni, ma entrambi riusciti a creare delle piccole comunità in cui si esprimeva al meglio una certa cultura romana che sembrava scomparsa, o quantomeno diluita e indebolita in altre parti della città. Oltre a quella tipica di chi ostinatamente frequenta il Tevere di Roma, la cultura “fiumarola”.
Ho subìto il fascino del fiume e del modo in cui i protagonisti mi facevano dimenticare che in quel tratto era la fogna di Roma. Ho subìto il fascino del conflitto, delle storie di coltello. Tutto questo ha guidato le riprese iniziali e motivato lo sforzo di volerle realizzare in 16mm. Mi sono reso conto però che tutto questo non bastava, che sarebbe stato necessario fare un lavoro sul tempo, per evitare di rimanere confinato a un racconto antropologico, per quanto interessante.
Per capire come andare avanti ho impiegato alcuni anni in cui ero consapevole di non voler indulgere nella malinconia dell’estinzione, nell’orazione funebre per una cultura che scompare. In effetti nel corso delle riprese alcuni dei protagonisti sono morti: ma la vita sul fiume continuava e ho capito che quei dolorosi passaggi dovevano diventare gli snodi funzionali alla narrazione di un processo.
L’ elemento nuovo che si è aggiunto e poi sviluppato nella storia è il sogno migratorio di Anwar, la sua inesauribile energia nel volerlo realizzare, il suo sforzo per mantenere una dignità nelle difficoltà, il desiderio di ricongiungersi ai familiari.
La presenza di Sor Irene mi faceva sperare nell’integrazione delle due esperienze: quella antica fiumarola, in estinzione, dei Rosci, e quella moderna, orientale e migratoria, di Anwar.
La sfida che piuttosto ossessivamente ho deciso di affrontare è stata quella di riuscire a lavorare sul tempo e rendere emblematica una storia ventennale di gente invisibile, che vive ai margini, e la cui azione si svolge in una singola unità di luogo. Uno sguardo interno, empatico su una cultura che scompare e una nuova che emerge.
Il rapporto di fiducia sviluppato in tanti anni di frequentazione e l’abitudine alla presenza della macchina da presa ha permesso ai protagonisti di sentirsi sempre a proprio agio.
Considerandomi il depositario della loro storia (dei Rosci, dei Ciccioni, di Anwar) mi hanno permesso di dirigerli quando necessario.
Il parallelo può essere posto come segue: nel corso del tempo noi esseri umani cerchiamo di liberarci di tutto ciò che è predeterminato o deciso da altri, di trovare la nostra strada. E magari ci riusciamo anche. Poi, a un certo punto, per quanto lontani possiamo essere, ci accorgiamo, come l'anguilla, che è il momento per tornare verso il punto di origine.
Riprendere è per me l'esperienza di essere in quel luogo e in quel momento: nelle mie riprese cerco di mettere quelli che sono i miei principi e quello che mi propongo di fare, le emozioni che intendo esprimere e tirare fuori dalla scena. Cerco di metterci il senso di quello che sono e di quello che vedo. Ci metto la mia identità attraverso la scelta dell'inquadratura, dei tempi in cui la trattengo sui protagonisti e sui dettagli. Per fare del mio meglio nel cogliere la tensione narrativa di quel un momento.
Angelo Loy