Su Enrico Berlinguer sono stati realizzati molti documentari, libri, saggi, ma nessuno ha mai provato ad a idare al cinema di finzione la ricostruzione “da dentro” della sua vita, o di parte di essa, del suo mondo e del suo popolo. Eppure parliamo di un mondo fatto di centinaia di migliaia, milioni di persone, una gran parte delle quali ancora vive, e di un uomo che è simbolo globale di una sfida e di una scelta: provare ad attuare il socialismo in una società democratica e indipendente, superando le diseguaglianze, ma garantendo tutte le libertà economiche e culturali che le dittature sovietiche avevano invece schiacciato. Dell’uomo che ha avuto i funerali tra i più partecipati e toccanti della storia d’Italia e non solo. Insieme a Marco Pettenello, sceneggiatore e compagno di tanti viaggi importanti, ho deciso di misurarmi con questa sfida e due sono stati i cardini che mi hanno aiutato ad arrivare fin qui: da una parte il rispetto della serietà e della sobrietà di Berlinguer, dall’altra la scelta di non imitare né idealizzare, ma di provare sempre a capire. Non sono due indicazioni puramente razionali, credo siano profondamente poetiche. Seguendole, ho cercato di entrare nel pensiero di Berlinguer, nella sua relazione diretta con quanto ha voluto e ha fatto, con le sue ambizioni, le sue tensioni e le sue paure, negli anni forse più complessi e decisivi della sua esperienza politica. E ho cercato di penetrare nel suo mondo, in quell’universo parallelo unico, intenso e non privo di contraddizioni, così singolare nella storia d’Europa, che ha rappresentato il Partito Comunista Italiano, a cui Berlinguer ha dedicato la vita intera. Aver scelto, sin dal primo istante, Elio Germano come protagonista è stato essenziale, perché sapevo e ora so ancora meglio che anche lui avrebbe lavorato per capire e non per rappresentare. Se teatralizzati, Enrico Berlinguer, il suo mondo e il suo popolo, non possono infatti che diventare o eroi o nemici. Se invece si cerca di entrare, con rispetto e comprensione, dentro a una scelta di vita, allora si può provare a fare cinema, o almeno il cinema che a me piace fare: raccontare la politica non attraverso slogan e simboli, ma immergendosi nella vita di chi la sente parte irrinunciabile dell’esistenza. Serve tanto studio, molto tempo e una convinzione collettiva del perché (il cinema è un’arte collettiva), di cui ringrazio tutte le persone che hanno lavorato con me. Quella di Enrico Berlinguer è una vita che può aiutare ancora oggi a porsi domande, a cercare risposte. Il mondo è profondamente cambiato, ma le urgenze e le emozioni che hanno attraversato la sua vita e suo popolo non sono scomparse, albergano in strade diverse, si cercano, si interrogano, attraversano le contraddizioni dell’oggi, si infilano nei vuoti e nei pieni della società contemporanea. Esiste un’universalità nell’azione e nel pensiero di quest’uomo, che è mirabolante poter esplorare e ascoltare al di là dell’ormai anacronistica adesione ad un partito. Berlinguer era piccolo, gracile, silenzioso e riflessivo, studiava molto, scriveva tantissimo, parlava con grande calma e precisione, guardava negli occhi, ascoltava. Raramente usava o urlava slogan, anche quando si trovava di fronte a centinaia di migliaia di persone, come è spesso capitato. Queste sue caratteristiche, così diverse da altri leader del Novecento, lo fecero amare da tantissimi italiani, dai comunisti, ma anche da chi comunista non lo è mai stato. Ho seguito Enrico/Elio con una regia di immersione, grazie alla maestria della camera di Benoît Dervaux, dentro ai luoghi e alle scelte di quegli anni così densi, veri spartiacque dello sviluppo sociale e politico dell’Italia e non solo. In molti mesi di montaggio ho deciso, insieme a Jacopo Quadri, a iancati dal lavoro musicale intenso e minuzioso di iosonouncane, di creare un dialogo estetico e narrativo tra la nostra messa in scena e le immagini di archivi cinematografici scelte non per testimoniare, ma per scolpire. Segni precisi di una memoria che diventa cinema.
Andrea Segre