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locandina di "Vajont - La Fine di un'Epoca"

Cast

Con:
Marco De Biasi

Soggetto:
Marco De Biasi

Sceneggiatura:
Marco De Biasi

Musiche:
Marco De Biasi

Produttore:
Marco De Biasi

Vajont - La Fine di un'Epoca


Regia: Marco De Biasi
Anno di produzione: 2024
Durata: 7' 15''
Tipologia: documentario
Genere: ambiente/sociale/storico
Paese: Italia
Distributore: n.d.
Data di uscita:
Formato di proiezione: DCP, bianco/nero
Titolo originale: Vajont - La Fine di un'Epoca
Altri titoli: Vajont - The End of an Age

Sinossi: Il cortometraggio "La Fine di un'Epoca" vuole raccontare, attraverso l'uso simbolico delle immagini, quanto accaduto la notte del 9 ottobre 1963 presso la diga del Vajont. Il tessuto narrativo si sviluppa utilizzando gli elementi materiali e naturali presenti nel territorio. Oggi essi si mostrano a noi come il risultato di una profonda trasformazione determinata dall'immane energia distruttiva provocata nel momento in cui il Monte Toc è scivolato all'interno del bacino della diga. Il crollo della montagna ha fatto fuoriuscire circa 50 milioni di metri cubi d'acqua ed ha provocato la totale distruzione dei paesi che si trovavano lungo il bacino idrico, a monte e a valle della diga. L'energia sviluppata è stata pari a 2 bombe di Hiroshima ed ha provocato la morte di 1910 persone. Nonostante ciò, la diga è rimasta intatta e ancor oggi domina il paesaggio di Longarone.

Il cortometraggio è accompagnato da un brano dal medesimo titolo che scrissi nel 2015 e che ottenne la menzione speciale al Concorso di composizione Pittaluga nel 2016.

Il video inizia con l'immagine di una campana appartenente alla vecchia chiesa di Longarone, una campana muta, che non parla più. È necessario invece raccontare come gli attori dell'epoca abbiano mosso i fili degli eventi. Per farlo bisogna portare l'attenzione verso il luogo in cui tutto è cominciato ed è perciò necessario far suonare la campana della memoria (la campana è situata lungo la ferrata "della memoria").

Tutto comincia dal basso con l'idea di dominare la natura e di mettere al proprio servizio la forza dell'acqua. Si scava la montagna e si inizia a costruire la diga. Questa sale pian piano trasformando ogni cosa e ogni equilibrio umano e naturale. Come in un viaggio onirico, presagi nefasti si manifestano palesemente, ma i segni non vengono accolti da chi tiene in mano le redini della situazione e si continua a salire, quasi l'arrivare a creare il muro più alto del mondo fosse dimostrare la sopraggiunta onnipotenza della tecnica. Ma proprio quando si arriva in cima e si comincia a riempire l’invaso, lì si scoprono gli effetti di quanto creato e la discrasia generatasi tra la superbia dell'ingegno umano e la risposta ineluttabile della natura provoca fratture irrecuperabili. La prospettiva cambia, la visione della diga ruota e muta direzione, l'uomo è stato vinto.

Qui si raggiunge il climax e per farlo mi servo di una citazione di Dino Buzzati e del suo articolo comparso sul "Corriere della sera", l'11 ottobre 1963. Qui, in modo davvero inopportuno, lo scrittore, invece di portare l’attenzione sulle vittime, tesse l'elogio della diga scrivendo: "...Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d'acqua e l'acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere quindi non si può, come nel caso del Gleno, dare della bestia a chi l'ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d'arte, testimonianza della tenacia, del talento, e del coraggio umano. La diga del Vajont era ed è un capolavoro perfino dal lato estetico."

Allo stesso modo, un sasso viene fatto cadere nell'acquasantiera e quell'acqua che doveva essere fonte di vita si trasforma in causa di morte. Il fatto restituisce all'eternità 1910 anime. Dall'interno della diga, di notte, l'acqua si innalza per più di 200 metri, esce, si incunea nella forra e fa sparire interi paesi, lasciando dietro di sé morte, detriti, rovine e desolazione. I suoni di vita che fino ad un attimo prima permeavano il normale vivere delle persone, ora si sono trasformati in suoni di morte.

Così, per coloro che sono sopravvissuti, arriva l'alba di un nuovo giorno. In mezzo alla tabula rasa lasciata dall’onda, una sequoia ha resistito senza muoversi di un passo, ma il prezzo da pagare è stato l'aver perso la propria pelle. La vita, di cui l'albero è il simbolo, non ha perso la sua battaglia contro la morte, ma ha dovuto cedere in cambio persino l'esistenza di coloro che stavano per vedere la luce e non sono mai nati (“Mai nati”, scultura di F. Fiabane). Legno e ferro ora sono diventati un organismo solo e lo spettro della diga e dei suoi detriti generano quel senso di orrore che ci lascia attoniti.

Non tutto è andato perduto e dove si può si cerca riparo. Una rosa all'interno di un giardino protetto (i Murazzi) ci accoglie. Il passato di coloro che sono rimasti è ormai sempre più lontano e irrecuperabile, lo si vede in fondo ad un corridoio infinito, sempre più piccolo e inafferrabile. D'ora in poi bisognerà convivere con i propri incubi e con ciò che è accaduto, poiché questa è La fine di un'epoca.

Sito Web: http://

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