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Montecristo  (02/01/2008 @ 18:54)
non mi è piaciuto, personaggi caricaturati che non fanno ridere, una storia forte, per un intreccio debole, ha preso dei premi ergo il mio gusto è poco professionale. Rimane dopo la visione un film inutile e con troppe pretese, brava Luxuria mi ha stupito. Comunque per me è un film molto mediocre non lo consiglierei a nessuno.
Gabriele Marcello  (15/08/2006 @ 00:00)
A volte il cinema serve per portare in luoghi che paiono lontanissimi, ma che, invece, stranamente sono vicinissimi a noi. Ora si dovrebbe solo distinguere se, il luogo “cinematografico “ è metaforico o realmente geografico, quindi tangibile, percorribile ed esplorabile. Massimo Andrei di luoghi ce ne mostra addirittura tre, nella sua opera prima, Mater Natura: quello che c’è, quello che non c’è, e quello che potrebbe esserci. Ad una prima visione, quella frettolosa, da festival o da domenica pomeriggio dopo pranzo, il film di Andrei può tanto risultare fastidioso quanto piacere, ma sempre tra due estremi e mai in una via di comodo; in realtà la pellicola del giovane regista è un mosaico complesso ogni dire e, forse per questo, dotato di un fascino avvolgente e insinuante. Si parlava di luoghi, nel film tre, e in particolare del primo, quello della struttura classica: il melò. Desiderio ama alla follia un giovane, bello e aitante, ed è ricambiata, se non che, scopre che lui deve sposare un'altra ragazza. Desiderio è folle di dolore e gelosia per questa perdita, ma, il suo male si amplifica con la vera perdita, ovvero la morte del giovane. Da qui parte la nuova consapevolezza e quindi l’elaborazione del lutto, proprio e collettivo. Questo il primo luogo di Andrei e del Film, il luogo del cinematografico per eccellenza, il melodramma sferzante e sferzato; che non esige giustificazioni, in totale e in continua crescita e che si attorciglia in spirali contingenti e impetuose, quelle per intenderci che mirano a colpire lo spettatore prima allo stomaco e poi al cervello. Maestri di questo gioco sono stati, Sirk, Powel, e Visconti in parte, capovolgendo le regole nel classico menage di attrazione e repulsione. Anche Mater Natura gioca sulla classica dicotomia, vincendo a pieno, dal momento che la parte di melò risulta convincente e sentita, nel giusto equilibrio del dramma/farsa. Ma non solo, il primo luogo cinematografica sta per essere capovolto, infatti, oltre ad un vero e proprio amore impossibile ( un trans e un eterosessuale), la commistione dei generi infrange la tradizione, e, alla fine, non vince il dramma ma la commedia. Questa novità è fondamentale, l’unica chiave per un analisi completa dell’opera. Il dramma di Desiderio non solo crea una frattura con l’altro luogo del film, ma ne esce ancora più amplificato, nel momento in cui non rimane “immerso” nel proprio dolore. La scrittura piacevole e pungente ( che a volte può ingolfarsi in alcune scene, ma non si nota), crea un pungolo attivo di tensione drammatica ogni qualvolta la macchina da presa inquadra Desiderio e il proprio dolore, e la cornice ( ma è troppo riduttivo come aggettivo per il 50% del restante film) gioca in suo favore e non a sfavore. Il fatto poi che la storia d’amore abbia per protagonista un transessuale conduce ancora di più verso l’inesplorato. Spesso sottomesse alla logica popolar culturale della poshade, la figura del transessuale acquisisce per la prima volta in un opera cinematografica giusto valore. Gli esempi passati erano a servizio del macchiettismo ( Come mi vuoi) o comunque non ben analizzati ( Le fate Ignoranti), stavolta Andrei sembra guardare direttamente a Neil Jordan e al suo The Cryng Game, e racconta la fase del cambiamento e della consapevolezza della scelta. Non quindi un film del dubbio, ma sul dubbio, con la battuta chiave del personaggio “Che sono io? Non sono un uomo, non sono una donna, io sono una bugia!” Non mentire per essere accettati, ma mentire nella propria essenza e materializzazione di essere umano completo e con sentimenti. E questa consapevolezza porta il regista a mostrare al pubblico il terzo territorio, un territorio che non è ancora ( o non vuole essere) mostrato: il terreno dell’altro. Un mondo a parte, forse chiuso per sua natura, che si apre e volge il suo sguardo al resto del mondo, non per richiudersi e per accentuare la propria particolarità, ma per creare omogeneizzazione. I transessuali non vengono filmati come mosche bianche, ma come mosche libere di volare e di accopparsi con altri insetti, e aperte ad integrarsi alla collettività con l’apertura del centro Mater Natura. Ed è proprio in questo casolare, che la forza del film, e del suo messaggio, si sprigiona: siamo soli ma possiamo fare del bene agli altri anche a chi ci odia. Lontani dalla violenza di Almodovar e dall’isterismo delle sue figure più riuscite ( cinematografiche e poco reali), i transessuali creati da Andrei vivono di luce propria, di scelte e di lavori comuni agli altri, con sogni che non sono pastiche dei film di Doris Day. La normalizzazione dell’altro è l’elemento più affascinante di questo film che affascina e che capovolge in maniera irrefrenabile anche gli stilemi più classici, come quello del kitch. Se Priscilla, Queen of the desert di Hogan o lo stesso TransAmerica, studiano ed esaltano il Kitch in modo tale da renderlo un tutto non omogeneo alla scelta cinematografica, in questo film avviene il contrario: non musealizzazione ( e quindi mercificazione del kitch) ma libera espressione per e con. Non sono kitch le musiche di Cannavacciulo, ispirate a ritmi della terra e Bregowich, ne le scenografie o la fotografia ( livida e potente, quasi ascetica nei tramonti). Un discorso a parte meritano i costumi del geniale Giovanni Addante; se si pensa a piume di struzzo e paliettes, siamo fuori campo, dal momento che Addante trai ispirazione dalle tele di Frida Kalo e di Dalì, nella creazione di “pelli” e non di abiti, che guardano alla persona e non al personaggio, che respirano delle evaporazioni del Vesuvio e non delle luci strobosferiche. E poi la terra, questa campagna sotto un vulcano ( metafora facile ma originale di fallo) , che vive e che regala la vita e il peccato ( la mela ) e fa superare le avversità. Andrei sa che non può con contare su degli abitanti adatti per le sue terre (o luoghi) e quindi opta un poker di attori variegato. Se Vittorio Foglia Manzillo può soffrire della sindrome cannibalica apollinea che lo porta a essere un oggetto e non un soggetto del desiderio ( strumento gia sperimentato con successo da Garrone), Maria Pia Calzone traccia con sopraffine bravura il ruolo di Desiderio, tutto giocato su sfumature di sottrazione e di sottotoni, che rendono il personaggio fortemente sentito e credibile. Se le doti di commediante e di intrattenitrice di Vladimir Luxuria erano note, stavolta si rimane piacevolmente sorpresi nel vederlo recitare sempre in abiti mascolini, con una forza e con un senso della partitura cinematografica inusuale e decisa. Nei panni del regista che tenta di mettere in scena opere della tradizione con il solo ausilio di uomini, Luxuria diviene spina dorsale del film, regalando dramma e commedia quasi come in As you like it. E sia per la direzione degli attori che per la scrittura, fa capolino la carriera o vita precedente ( gavetta sarebbe riduttivo) di Andrei, tutta a servizio del teatro, che ora si rielabora mischiando un pò tutto, come in un crogiulo, il meglio della propria esperienza: se la scelta di Enzo “Europa” Moscato rimanda i colti e non solo, ad uno dei personaggi di “La fine della bellezza” di Giuseppe Patroni Griffi, quello di Iavarone e quello di Brescia guardano alla commedia Elisabettiana, non solo Shakespeare ma anche tutti i minori, Ford in testa. E tra bravi attori e belle scene, per una volta, finalmente, Napoli perde la sua funzione di cartolina e diviene terra di confine e di cambiamento, solare ma non più oleografica.

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